venerdì 19 ottobre 2012
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È come quando si blocca il computer. Le immagini rimangono fisse sullo schermo, senza più rispondere ai comandi, e qualunque tasto si provi a spingere, non si riesce più a ripartire. Davanti al video che riprendeva il bambino conteso di Cittadella, la reazione più comune degli spettatori è stata la medesima. Ci si è chiesti come fosse potuto succedere, e dove stesse l’errore. Soprattutto, che cosa si sarebbe dovuto fare per riparare il guasto. Vista la grande risonanza mediatica del fatto, quasi tutti – e spesso a sproposito – hanno voluto dire la loro. Non solo sul caso specifico, ma più in generale sul problema dell’affidamento dei figli dei separati. Tuttavia, pochi hanno compreso che anche la soluzione è analoga a quella che si usa per i computer. Reinstallare tutto quanto. Tornare alle radici del problema, a quando tutto è iniziato, per rimuovere definitivamente il virus. L’articolo 29 della Costituzione continua a dirci, anche se nessuno vuol più ascoltare, che la famiglia é una realtà naturale fondata sul matrimonio. Non è, dunque, quello che le sentenze dei giudici vorrebbero che fosse. Il problema è proprio in quella radice ormai abbandonata da tutti, che è il matrimonio. All’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, in tutto il mondo occidentale, si è deciso che il diritto individuale a separarsi dal coniuge fosse incondizionato, e comunque prevalente sul diritto dei figli a essere cresciuti da genitori conviventi. Ci si è illusi, vanamente, che anche quando l’alleanza tra i genitori si rompe senza un motivo oggettivo, sarebbe comunque stata possibile la solidarietà nei compiti educativi. La radice delle scene pietose che si sono vedute in tv nei giorni scorsi, piaccia o meno, ancora oggi è tutta lì. Un giurista americano, Harry D. Krause, trattando del diritto di famiglia nel secondo millennio, ha giustamente premesso che nella nostra epoca quel che è importante non è il matrimonio, ma i bambini. Tant’è che tutto il sistema, a parole, si basa sull’esigenza di tutelare il loro «superiore interesse». La clausola implicita, però, è che questo interesse deve sempre essere subordinato a quello di ciascuno dei genitori a «rifarsi una vita». Attorno a questo inganno si sono costruite vere e proprie favole consolatorie. Come quella, che va per la maggiore nei tribunali, per cui il vero dramma dal quale preservare i figli sarebbe la conflittualità tra i genitori – o addirittura, la loro "infelicità coniugale" – piuttosto che la separazione di per se stessa. Per questo sarebbe urgente resettare il sistema, e riaffermare in linea di principio la verità naturale, semplice e cristallina, per cui non si può essere fino in fondo buoni genitori senza sforzarsi di essere anche buoni coniugi, come se fossero due cose indipendenti l’una dall’altra. Si dirà che pure queste sono solo parole. Petizioni di principio che non servono a affrontare situazioni tragiche come quella di Cittadella. Quando una casa brucia, quel che conta è spegnere l’incendio. Il che è in parte vero, ma il vero problema è proprio che, in troppi casi, la parte dei pompieri la vogliono svolgere gli stessi soggetti che di continuo appiccano il fuoco. Non parlo solo dei genitori, ma anche e soprattutto dei legali, dei consulenti e dei vari esperti, che si affannano attorno al capezzale di decine di migliaia di famiglie scoppiate e di minori in difficoltà (in Italia, i ragazzi coinvolti sono tra gli 80 e i 90 mila ogni anno, e circa la metà al momento del crac familiare hanno meno di undici anni). Di fronte a un simile disastro, una nuova cultura non potrà rinascere da un giorno all’altro, ma questo non è un buon motivo per non affrontare il problema alla radice. Partendo dal diritto positivo, in quanto - così come a suo tempo è accaduto per il divorzio - sono le leggi a modificare i costumi delle persone, e non viceversa. Poi, certamente, per arginare i drammi nascenti dalla conflittualità tra genitori, sarebbe anche necessario introdurre soluzioni transitorie. Nonostante le resistenze dei magistrati a applicare la legge del 2006 sull’affidamento condiviso, un rimedio efficace sembrerebbe quello di imporre come regola il cosiddetto affido alternato. Almeno a partire dall’età scolare, i figli dovrebbero mantenere la doppia residenza nella casa di entrambi i genitori separati, e trascorrere significativi periodi a casa dell’uno e dell’altro. È difficile che ci si arrivi, perché i legali e i vari consulenti, non a caso, sostengono che sarebbe una soluzione poco pratica, che non può diventare la norma. Il loro modo di pensare - al di là di tanti vani discorsi - privilegia i desideri e le esigenze individuali degli adulti, piuttosto che le ragioni dei loro figli. Anche per questo, finché non si riaffermerà il principio per cui pacta sunt servanda, e agli adulti non deve essere concesso di travolgere tanto facilmente gli impegni che derivano dal matrimonio, ma anche dal fatto stesso della filiazione, una soluzione davvero efficace non la si troverà mai.
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