martedì 5 marzo 2024
Antonio Novelli da la caccia ai geni responsabili di malattie dei bambini per le quali spesso manca persino il nome, oltre alla terapia. Ecco la sua storia. E la sua lezione
Un laboratorio del "Bambino Gesù"

Un laboratorio del "Bambino Gesù" - www.ospedalebambinogesu.it

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Tra i tanti messaggi che gli arrivano sul computer compare spesso una nuova foto di un bambino sorridente tra le braccia della mamma. Ne ha collezionate più di un centinaio. «Ogni volta vederli così sereni mi dà un’emozione grandissima», confida Antonio Novelli, responsabile del laboratorio di Genetica medica e dell’area di ricerca di Citogenomica traslazionale dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. O meglio, per dirla in modo semplice: cacciatore di geni. Se molti bambini possono finalmente avere una diagnosi e sperare in una possibile cura lo si deve infatti al fiuto e alla caparbietà, oltre che alla competenza, di questo 55enne di origine calabrese, al Bambino Gesù dal 2015. «Ho scelto di fare il genetista – premette – perché ho avuto la fortuna di lavorare con il professor Bruno Dallapiccola, che ha trasmesso questa passione a tutti i suoi allievi». E così «ho seguito le impronte del fratello più grande», il genetista Giuseppe Novelli, già rettore dell’Università Tor Vergata.

Ben 11 i nuovi geni scovati quest’anno nel suo laboratorio, ed esiste persino una malattia che porta il suo nome: la sindrome del neurosviluppo Dentici-Novelli. Il lavoro del cacciatore di geni, in effetti, non è per nulla semplice: tra dati clinici e sequenziamenti, sembra di stare di fronte a un rebus impossibile. «Dal 2010 le tecnologie si sono evolute – spiega –. Se nel 2000 sequenziare il genoma umano costava circa 95milioni di dollari, oggi con 4-500 è possibile analizzare contemporaneamente migliaia di geni. Questo fa sì che ci siano geni che hanno un numero, e che quindi sono associati a una determinata malattia, ma ce ne sono migliaia di altri implicati nei meccanismi biologici di alcune malattie però ancora non identificati». Il processo per arrivare a scoprirli, se fila tutto liscio, può durare un mese: «Quando i piccoli pazienti hanno una indicazione clinica particolare, hanno cioè un fenotipo complesso, sottoponiamo il loro campione di dna a una indagine specifica. E andiamo a identificare potenziali nuovi geni malattia». In sostanza, serve un prelievo di sangue del bambino. Poi, per accorciare i tempi della diagnostica, vengono esaminati anche i campioni del dna dei genitori. «Valutiamo il valore delle mutazioni geniche che troviamo per capire se c’è una variazione nelle sequenze in un genitore: possiamo così identificare se si tratta di malattie autosomiche recessive, ossia che si trasmettono ai figli se entrambi i genitori sono portatori sani».

In sostanza, l’approccio permette di sequenziare contemporaneamente il dna e di mettere in evidenza potenziali mutazioni. Ma a questo punto è fondamentale l’acume del genetista. «Bisogna avere il fiuto clinico, quindi conoscere la storia del paziente, la sua origine familiare, etnica, la genetica medica – precisa Novelli –. Non ci si può limitare solamente alla lettura del dato informatico: bisogna fare un’analisi familiare, capire se quel tipo di mutazione è presente in quel tipo di popolazione. I quadri clinici poi possono essere sovrapponibili, tante volte un gene può dare più malattie, mentre per una singola malattia esistono mutazioni di più geni». E quando si trova un gene nuovo che non è descritto nella letteratura scientifica si utilizzano i dati condivisi dagli scienziati di tutto il mondo. «Questi grandi dati consentono le identificazioni di eventuali geni di malattie, di ristabilire il rischio genomico e quindi di aprire potenzialmente la strada alla scoperta di nuovi farmaci e terapie». Come è successo a un piccolo paziente (nove in tutto il mondo con la stessa malattia): «Abbiamo condiviso i dati con un gruppo americano, iniziando a utilizzare un farmaco. Poter dare una speranza e un sollievo a un bambino e alla sua famiglia è ogni volta un’emozione impagabile».

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