martedì 20 febbraio 2024
Una malattia molto invalidante potrebbe essere combattuta più efficacemente grazie a diagnosi più accurate. Lo rivelano due studi su Lancet a cui ha partecipato la reumatologa D'Agostino (Gemelli)
Maria Antonietta D'Agostino

Maria Antonietta D'Agostino - Università Cattolica del Sacro Cuore

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Le malattie reumatiche non sono sempre sotto i riflettori, ma sono molto invalidanti, e anche pericolose se non curate adeguatamente. Ora due nuovi studi sulla più nota di queste patologie, l’artrite reumatoide, mostrano che un trattamento precoce, addirittura prima delle manifestazioni cliniche caratteristiche, potrebbe rallentare se non bloccare la progressione della malattia.

Lo spiega Maria Antonietta D’Agostino, direttore della Unità operativa complessa di Reumatologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs e docente di Reumatologia all’Università Cattolica, che ha partecipato a entrambi gli studi, recentemente pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet.

«Le malattie reumatiche rappresentano un gruppo di patologie estremamente vasto, se ne contano più di cento – esordisce D’Agostino –. Nelle forme articolari loro manifestazioni principali sono il dolore e l’infiammazione, che può essere locale o sistemica. Nel caso delle artriti, cioè reumatismi infiammatori cronici che colpiscono l’articolazione, la caratteristica principale è un’infiammazione delle articolazioni, cioè della membrana sinoviale che riveste le articolazioni e ci permette di muoverle».

Se è chiaro il danno, non altrettanto lo è la causa: «La membrana sinoviale si infiamma su una base immunologica, di cui non conosciamo la causa, ma sappiamo che l'infiammazione non si spegne mai, e diventa cronica».

Una patologia che causa disabilità

La principale di queste malattie è l’artrite reumatoide, che ha una prevalenza tra lo 0,5 e l’1% della popolazione mondiale. Se progredisce senza cure, la malattia è causa di disabilità: «Aggredisce le ossa, distruggendo le articolazioni, provoca erosioni e deformazioni – continua D’Agostino – e aggressioni dei tendini. Quindi rende impossibile l’uso delle articolazioni, e nelle forme più severe può essere difficile camminare. La manifestazione più comune è l'interessamento delle mani, come è stato il caso di Pierre-Auguste Renoir, uno dei malati più famosi: per poter dipingere, il pittore si faceva legare il pennello al polso, perché le dita erano inutilizzabili».

Nell’infiammazione cronica dell’artrite reumatoide è coinvolto il sistema immunitario: «Mantiene il processo infiammatorio che può essere interrotto dai farmaci immunosoppressori. Ma se non è bloccata dai farmaci – puntualizza D’Agostino – la malattia ha un impatto su ulteriore morbidità e aspettativa di vita. Infatti avere una infiammazione cronica aumenta il rischio di sviluppare patologie cardiovascolari, tumori, infezioni».

Né va dimenticato che i reumatismi infiammatori non sono tipici dell’anziano: «Possono colpire qualunque fascia di età – chiarisce D’Agostino – e a seconda delle diverse forme di artrite ci sono età privilegiate: l’artrite reumatoide tra i 40 e 50 anni, la spondiloartrite tra i 20 e i 40, l’artrite psoriasica intorno ai 50 anni, il lupus tra i 20 e i 40. Quindi colpiscono le persone in età produttiva, che spesso non riescono più a lavorare e diventano “consumatori” di sanità».

Le difficoltà della diagnosi

Ecco perché i due nuovi studi, pubblicati su Lancet, offrono una prospettiva interessante per la cura dell’artrite reumatoide, perché suggeriscono che una diagnosi e un trattamento precoce potrebbero ritardare se non bloccare l’intero processo infiammatorio dell’artrite reumatoide. Nel primo che ha utilizzato l’ecografia è stato utilizzato il punteggio di sinovite ecografica Omeract-Eular, ideato e sviluppato da Maria Antonietta D’Agostino, nel secondo è stata utilizzata invece la risonanza magnetica nucleare (Rmn).

La diagnosi infatti «può essere a volte un po’ difficoltosa perché la storia naturale della malattia è caratterizzata da diverse fasi – osserva D’Agostino –. Una prima in cui sono presenti solo marker umorali, come gli autoanticorpi e non ci sono sintomi. Poi la comparsa di dolori articolari persistenti con caratteristiche infiammatorie, infine un dolore persistente delle mani e dei piedi che sveglia nell’ultima parte della notte e si caratterizza per una rigidità mattutina di almeno un’ora e che è presente tutti i giorni».

Con questo dolore, si deve consultare un reumatologo, anche se spesso il paziente si rivolge prima ad altri specialisti, soprattutto se il problema a una articolazione in particolare è il più invalidante. «Il medico di base – chiarisce D’Agostino – prescrive alcuni esami di laboratorio per vedere se c’è una sindrome biologica infiammatoria. A volte è necessario richiedere una ecografia di conferma della presenza di una sinovite, cioè il gonfiore delle articolazioni, che assieme alla persistenza di dolori notturni e alla presenza di indici infiammatori ci aiuta a fare la diagnosi».

La cura con immunosoppressori

Il trattamento «parte con almeno tre mesi di un farmaco immunosoppressore: quello di riferimento è il methotrexate. Se non c’è risposta, si passa ai farmaci biologici, tra cui l’abatacept». Proprio quest’ultimo farmaco è stato oggetto dei due studi pubblicati da Lancet. «L’ipotesi di base di questi due studi – continua D’Agostino – era che i soggetti a rischio che non hanno la malattia, ma potenzialmente possono sviluppare una artrite reumatoide, se trattati con abatacept, che è un immunomodulatore che blocca la stimolazione dei linfociti T verso i linfociti B (che mantengono l’infiammazione), possono vedere rallentata l’evoluzione verso la malattia conclamata. Sappiamo infatti che i soggetti che hanno il fattore reumatoide positivo oppure gli anti Ccp, e i sintomi articolari (dolori), sono a rischio alto di sviluppare l’artrite reumatoide nell’anno che segue l’inizio dei dolori».

Lo studio con ecografia

Il primo studio (Apripra) ha arruolato 213 persone con dolori articolari, ma senza segni clinici o indici di laboratorio, e con positività al fattore reumatoide o per gli autoanticorpi tipici della malattia (anti Ccp). I pazienti sono stati divisi in due gruppi presso 30 centri britannici e uno olandese: uno è stato trattato con abatacept, l’altro con placebo.

«Tutti sono stati sottoposti a ecografia articolare all’inizio dello studio – riferisce D’Agostino – , al termine del primo anno (quando veniva sospeso il trattamento) e dopo 24 mesi». La comparsa di malattia veniva confermata dall’ecografia con il punteggio Omeract-Eular: al termine del primo anno aveva sviluppato un’artrite reumatoide il 9% dei pazienti trattati con abatacept e il 29% dei pazienti nel gruppo di controllo. Dopo 24 mesi solo il 25% dei partecipanti trattati con abatacept per un anno sviluppava l’artrite reumatoide, contro il 37% del gruppo di controllo.

La risonanza magnetica

Il secondo studio (Aaria) è stato coordinato da Georg Schett, docente di Reumatologia all’Università di Erlangen e in visita presso l’Università Cattolica. Anche in questo caso un gruppo di persone a rischio di sviluppare artrite reumatoide (anti Ccp positivi) ma senza segni clinici o di laboratorio è stato sottoposto a risonanza magnetica della mano: in presenza di alterazioni subcliniche i pazienti venivano arruolati nello studio, anche in questo caso divisi in due gruppi: uno trattato con abatacept, l’altro con placebo.

In questo studio, la terapia precocissima con il farmaco biologico ha dimostrato una riduzione dell’infiammazione nel 57% dei pazienti trattati (contro il 31% del gruppo placebo) con un significativo miglioramento del dolore, della rigidità mattutina e della qualità di vita dei pazienti. Solo l’8% dei pazienti trattati contro il 35% del gruppo di controllo ha sviluppato artrite reumatoide. E le differenze tra i due gruppi restavano significative anche a distanza di un anno dall’interruzione del trattamento.

Risultati promettenti

In definitiva, ci sono alcuni messaggi importanti che si traggono dagli studi: «Le strategie di prevenzione possono essere utili – spiega D’Agostino –, e l’abatacept può essere un farmaco estremamente efficace, perché agisce sull’attivazione del sistema immunitario, mentre altri studi di prevenzione, con altri farmaci, non avevano dato la stessa risposta. Adesso i pazienti del primo studio saranno seguiti per i prossimi cinque anni per vedere se il beneficio si mantiene nel tempo: in questo caso, trattare sempre più precocemente i pazienti sarebbe utile a bloccare l’evoluzione verso la malattia».

Il consiglio, per ora, aggiunge D’Agostino, è di seguire molto da vicino i soggetti a rischio con esami del sangue ed ecografia: «Alla prima apparizione di un segno evidente, anche ecografico, bisogna trattarli».

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