mercoledì 13 marzo 2024
La maggior parte degli studi, osserva il neurologo Sorbi (Firenze), è dedicato alla diagnosi precoce, ma sono trascurate le terapie per i pazienti attuali. Airalzh premia cinque giovani ricercatori
Sandro Sorbi, docente di Neurologia all'Università di Firenze e direttore di Neurologia 1 all'ospedale Careggi di Fienze

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La ricerca sulla malattia di Alzheimer si muove come in un grattacielo pieno di stanze. Offre una immagine plastica della complessità che affrontano medici e ricercatori alle prese con la più nota delle forme di demenza, che colpisce 50-60 milioni di persone nel mondo, Sandro Sorbi, docente di Neurologia presso l’Università degli Studi di Firenze e direttore del reparto Neurologia 1 dell’Azienda Ospedaliera Universitaria “Careggi” di Firenze.

Recentemente Airalzh Onlus (Associazione italiana ricerca Alzheimer onlus), di cui Sorbi è stato presidente, ha reso noti i vincitori del quarto bando di ricerca che ha premiato cinque giovani studiosi (di età inferiore a 40 anni) distribuendo 300mila euro e raggiungendo così, in quattro anni, la ragguardevole cifra di un milione e 200mila euro destinati a 26 progetti di ricerca.

Contemporaneamente è stato pubblicata l’edizione 2024 del bando Agyr (Airalzh grants for young researchers): «Anche quest’anno grazie alle donazioni private e al supporto delle aziende – dice Alessandra Mocali, presidente di Airalzh onlus –, siamo stati in grado di premiare cinque giovani ricercatori che hanno presentato progetti di ricerca selezionati tra oltre 100 domande ricevute. L’obiettivo della nostra associazione è contribuire, giorno dopo giorno, allo sviluppo della ricerca medico-scientifica sulle demenze e sull’Alzheimer, una malattia “silente” che, a causa dell’invecchiamento della popolazione, è destinata a crescere sempre di più».

«Clinicamente la malattia Alzheimer non è una sola malattia – chiarisce Sorbi – perché si manifesta in forme clinicamente diverse: in alcuni con un predominante disturbo della memoria, in altri del linguaggio, in altri con un disturbo viso-spaziale, in altri con disturbo comportamentale, che iniziano in parti diverse del cervello».

Il fatto che condividano l’accumulo di amiloide e proteina tau «potrebbe anche essere il risultato finale e non il meccanismo di inizio delle varie forme – osserva Sorbi – ma questo problema è oggetto di studio, per cercare di arrivare a strategie sia preventive sia terapeutiche differenti a seconde delle diverse forme».

Lo confermano anche studi – separati dalla clinica – recenti «eseguiti analizzando le proteine nel liquor di migliaia di pazienti – riferisce Sorbi – mostrano profili completamente diversi, almeno 4-5 tipi. Il che spiegherebbe anche perché alcuni trial clinici non hanno avuto esito positivo: i pazienti erano probabilmente non uguali, anche se tutti con malattia di Alzheimer».

La ricerca di una terapia sta dedicando almeno dall’anno 2000 molta attenzione all’amiloide: «Abbiamo due-tre farmaci – spiega Sorbi – che sono stati approvati negli Stati Uniti, in maniera giudicata da molti un po’ frettolosa, ma non in Europa, dove per un paio di loro è però in corso una revisione. Si tratta di sostanze che mirano a intervenire nelle fasi iniziali di malattia».

Infatti la maggior parte della ricerca clinica è indirizzata alla possibilità di individuare marcatori precoci, anche preclinici, della malattia, per poter somministrare presto eventuali trattamenti: «Sia un recente studio cinese su migliaia di persone, durato una ventina d’anni, sia un nostro studio del 2006 – racconta Sorbi – su un campione più ridotto di pazienti con familiarità alla malattia, confermano che la produzione alterata di amiloide e tau inizia molto prima, anche 10-15 anni, che si manifestino i sintomi clinici dell’Alzheimer».

Questo indirizzo della ricerca, se può rivelarsi promettente per individuare precocemente soggetti a rischio, e cercare di rallentare l’avanzamento della malattia, pone però almeno un problema etico: «Si trascurano – lamenta Sorbi – gli attuali pazienti con malattia di Alzheimer, ai quali non siamo ancora in grado di offrire risposte terapeutiche adeguate».

Tuttavia, è pur vero che individuare precocemente i soggetti a rischio di sviluppare la malattia ha la sua indubbia utilità: «A livello di ricerca – sottolinea Sorbi – stiamo verificando la possibilità di una diagnosi precoce grazie all’alterazione dell’amiloide e della proteina tau nel sangue. Sarebbe un metodo più semplice per un ipotetico screening, perché attualmente la ricerca si effettua solo con la Pet o la rachicentesi, entrambe impegnative e costose».

«Per malattia si intende la comparsa dell’alterazione cerebrale – puntualizza Sorbi – mentre si parla di demenza quando compaiono i sintomi. Una diagnosi precoce dovrebbe però anche avere elementi predittivi dello sviluppo della malattia, se dopo due, cinque o dieci anni, perché l’approccio ovviamente cambia molto».

La diagnosi precoce comunque potrebbe incentivare l’adozione di misure di prevenzione di cui è nota l’efficacia: «Ci sono dati molto solidi – conferma Sorbi – su alcuni dei fattori che riducono le possibilità di ammalarsi. Sappiamo che il movimento e l’attività fisica rallentano la comparsa dei sintomi anche nelle forme ereditarie, così come la corretta alimentazione, o l’evitare fumo e obesità. Se sull’età (altro fattore di rischio) non possiamo far nulla, si può chiedere però a pazienti ipertesi o diabetici di controllarsi bene, senza trascurare le loro terapie».

Le cinque ricerche premiate da Airalzh riceveranno dai 48mila ai 60mila euro ciascuna, vagliate dal Comitato tecnico-scientifico dell’associazione. Claudia Carrarini, che svolge un dottorato di ricerca in Neuroscienze all’Università Cattolica di Roma e svolge la propria attività presso l’Irccs San Raffaele di Roma, lavora a un progetto sugli effetti della stimolazione transcranica sulla connettività cerebrale funzionale e strutturale nelle fasi iniziali della malattia di Alzheimer.

Lorenzo Gaetani, neurologo presso l’Università di Perugia e la Clinica neurologica dell’ospedale cittadino, investiga l’impatto delle patologie miste sulle traiettorie dei biomarcatori plasmatici nella malattia di Alzheimer.

Arianna Menardi, ricercatrice presso il dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova, ha proposto uno studio delle atlerazioni nelle connessioni funzionali del cervello come indicatori precoci della malattia di Alzheimer nelle persone a rischio.

Fausto Roveta, neurologo e dottorando in Neuroscienze all’Università di Torino, lavora a uno studio dei marcatori sinaptici e di neuroinfiammazione nel continuum della malattia di Alzheimer.

Infine Giacomo Siano, dottore di ricerca in Neuroscienze alla Scuola Normale Superiore di Pisa, realizza una indagine sul ruolo della tau nucleare nella biogenesi dei ribosomi.

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