«Una legge sul suicidio assistito rischia di “normalizzarlo”»
Parlamento e Corte costituzionale hanno responsabilità diverse: se questa si occupa dei criteri giuridici, le Camere varando con una nuova norma sul fine vita finiscono col plasmare cultura e mentalità, come già accaduto in altri Paesi. L’analisi della costituzionalista

Cosa significa oggi curare le persone in situazioni di sofferenza estrema? Serve una nuova legge sul fine vita? Che princìpi deve rispettare? E qual è il confine tra tutela della vita e della libertà? Con la serie di articoli “Scegliere sulla vita” ascoltiamo voci e sensibilità differenti, in dialogo tra loro. Interviene Giovanna Razzano, costituzionalista.
«Cultura della vita significa reclamare innanzitutto la difesa della vita come dovere prioritario delle autorità politiche. Occorre ricostruire, anche laicamente, la sacralità della vita e della morte, per non diventare preda del cinismo». Così si esprimeva tempo fa Luciano Violante dalle colonne di questo giornale, ricordando anche che le ragazze iraniane hanno rischiato il carcere gridando “donne, vita, libertà”, chiedendo non la pace ma la vita, «perché dal rispetto della vita nascono la libertà e la pace».
Trovo queste osservazioni profonde e vere, meritevoli di attenta considerazione, specie in questi giorni. Nel riflettere allora sull’opportunità di una legge sul suicidio assistito, anche solo “esecutiva” della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, occorre innanzitutto domandarsi: promuoverà la cultura della vita? Esprime il dovere prioritario delle autorità politiche di difenderla? È un contributo alla ricostruzione della “laica sacralità” della vita e della morte?
Il Parlamento ha una speciale responsabilità al riguardo, diversa da quella della Corte costituzionale, che non ha il compito di scrivere le leggi, e che infatti ha ribadito che è al legislatore che spetta primariamente il compito di offrire una tutela equilibrata a tutti i pazienti che versino in situazioni di intensa sofferenza. Il che esclude possa ravvisarsi, nella situazione normativa attuale, una violazione del loro diritto all’autodeterminazione (sentenza 135/2024).
Una legge non è come una sentenza, anche qualora si limitasse a ricopiarne i contenuti. La legge dispone in generale e in astratto per tutti i possibili casi futuri. E se la sentenza n. 242/2019 ha sancito che l’aiuto al suicidio resta un reato, anche se in alcuni casi non è punibile, una legge che affermasse la medesima cosa avrebbe effetti diversi, perché l’aiuto al suicidio verrebbe inevitabilmente percepito come lecito, possibile, esigibile, una prestazione fra le altre insomma. Ogni regolazione implica infatti un’autorizzazione. E il beneplacito della legge, anche la più restrittiva, ha effetti culturali: normalizzerebbe il suicidio assistito, al di là delle buone intenzioni dello stesso legislatore. Occorre realismo. Tutti i Paesi che hanno disciplinato suicidio assistito o eutanasia (i quali, ricordiamolo, sono un’esigua minoranza nell’ambito degli Stati aderenti alla Convenzione Europea per i Diritti Umani) hanno fissato paletti, e questi sono stati abbattuti o si sono rivelati formalità largamente interpretabili. Del resto cosa significano esattamente patologia irreversibile, sofferenza insopportabile, trattamenti di sostegno vitale?
La stessa Corte costituzionale ha chiesto al Parlamento molte cose. Da un lato ha auspicato che si dia attuazione a quanto stabilito dalla sentenza n. 242 del 2019, «ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina nel rispetto delle esigenze richiamate», dall’altro ha richiamato il legislatore al dovere di tutela della vita umana, per prevenire il pericolo di scelte non sufficientemente meditate, il rischio di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, specie se con patologie neurodegenerative. La Corte ha anche chiesto di contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso (sentenza n. 66/2025). Ha messo in guardia rispetto alla possibilità che si crei una «pressione sociale indiretta» su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte. Al legislatore la Corte ha anche rivolto uno «stringente appello» affinché dia corso a un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte. Occorre anche, secondo la Corte, prendersi cura di coloro che assistono i pazienti in situazioni particolarmente difficili e per lunghi periodi.
Perché allora non cominciare da qui, abbattendo il macigno della burocrazia che da decenni in Italia pesa sui caregiver, costretti a mandare decine di email e autocertificazioni, a rivolgersi a medici e sportelli per le esenzioni, l’assistenza e i presìdi dovuti, finendo per procurarseli a proprie spese?
La Corte costituzionale ha pure osservato che il cosiddetto “diritto di morire” rivendicato in alcune circostanze potrebbe essere paradossalmente percepito dal malato come un “dovere di morire” per non “essere di peso”, con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, “invisibili”. Mentre bisogna «ricostruire, anche laicamente, la sacralità della vita e della morte, per non diventare preda del cinismo».
Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale e pubblico - La Sapienza Università di Roma - Componente Comitato nazionale per la Bioetica
© RIPRODUZIONE RISERVATA






