Suicidio assistito: la Corte vuole tutelare i malati, non aiutarli a morire

Col quarto intervento in sei anni, i giudici costituzionali hanno chiarito in modo definitivo che non esiste un "diritto di morire", e il solo dovere dello Stato è garantire le cure necessar
May 28, 2025
Suicidio assistito: la Corte vuole tutelare i malati, non aiutarli a morire
Cosa hanno veramente detto le sentenze – ormai ben quattro – della Corte costituzionale in tema di fine vita, e che messaggio hanno rivolto al legislatore? La risposta si può semplificare in due questioni.
1) Di certo la Corte non ha voluto introdurre un obbligo del Servizio sanitario nazionale (Ssn) di “dare la morte” a un paziente. Questo viene detto chiaro e tondo già nella prima sentenza, la n. 242/2019, dove così si legge: «La declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza – si badi bene! – creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Anzi: la Consulta è ben consapevole che ogni legge, indicando un bene, condiziona la società nello stesso senso e, se una legge capovolgesse il senso stesso del Ssn dalla “cura” dei malati ad azioni che interrompono la vita di pazienti, affermerebbe pubblicamente l’inutilità della vita fragile.
Inequivocabile, in tal senso, la più recente pronuncia n. 66/2025 che raccomanda allo Stato di «contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso». Nello specifico, si avverte con chiarezza che «in presenza di una legislazione permissiva » si creerebbe una «pressione sociale indiretta su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte» (negli stessi termini anche la precedente sentenza n. 135 del 2024). Ma – si faccia attenzione – «tale scivolamento colliderebbe frontalmente con il principio personalista che anima la Costituzione italiana».
Quindi, il senso della sentenza non è affatto quello che viene strumentalmente evocato a ogni piè sospinto dal mainstream acriticamente assunto da troppi decisori pubblici nazionali e regionali. Si tratta, invece, solo dell’introduzione di una circoscritta «area di non punibilità sancita dalla sentenza n. 242 del 2019», come scandisce inequivocabilmente la sentenza n. 66/2025. Tradotto: in alcuni eccezionali casi, i cui requisiti rivestono «carattere essenziale» (sempre sentenza n. 66/2025) aiutare una persona a uccidersi non comporta la reclusione, ma questo atto rimane negativo e non tutelato dall’ordinamento, perché la vita debole non è di per sé disponibile, in quanto custodisce un anelito insopprimibile e umanissimo di speranza, che fonda, sempre, la dignità umana. Agli organi pubblici le sentenze consegnano solo il compito di accertare la presenza di tali eccezionali requisiti per non incorrere nella reclusione (cfr. par. 7 sentenza 66/2025), non quella, ben diversa, di fornire una prestazione diretta e attiva che consenta il suicidio e la morte di un malato.
2) Proprio perché la vita di un soggetto debole venga tutelata, la Corte va oltre. Insiste e ribadisce, nella 66/2025, che vi è il preciso «dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 5 del “Considerato in diritto”), nel senso che «da questo principio deriva il dovere della Repubblica di rispondere all’appello che sgorga dalla fragilità, in modo che una persona malata possa avvertire la solidarietà attorno a sé non a tratti, non a prolungate intermittenze, ma in via continuativa, attraverso un percorso di effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociale ». «Diventa quindi cruciale – argomentano i giudici costituzionali – garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte».
In questo ampio scenario di attenzione alla fragilità, vi è il primo essenziale servizio che lo Stato deve assicurare: la terapia del dolore, su cui, finalmente, nelle ultime tre leggi di bilancio il legislatore e il governo hanno smosso concretamente (anche se ancora molto c’è da fare) lo stallo in cui si versava da anni. In effetti, se nella prima sentenza n. 242/2019 la Corte aveva affermato che ricevere le cure palliative – questo sì – è un «diritto essenziale», nella pronuncia n. 66/2025 pretende ancora di più. Si ritiene, infatti, che solo «il contatto con sanitari e con una struttura effettivamente in grado di assicurare la tempestiva attivazione di terapie palliative può garantire il diritto dei pazienti di confrontarsi con l’ultimo tratto del cammino di vita in maniera dignitosa e libera da sofferenze, anche nella prospettiva di prevenire e ridurre in misura molto rilevante la domanda di suicidio assistito». Nell’ultima pronuncia, inoltre, la Consulta lancia un vero e proprio j’accuse al Servizio sanitario perché, «a oggi», in Italia «non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri», con “una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata ».
Quindi, la Corte non tace un nuovo «stringente appello al legislatore » (già svolto nella sentenza n. 135 del 2024) «affinché dia corso a un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un ricorso improprio al suicidio assistito». Questo, e non altro, è ciò che dovrebbe mobilitare l’Italia intera, al fianco dei più deboli.
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