«Non giudico chi soffre, c’è una soglia da rispettare»

di Cristiana Capotondi
Il tema delle scelte di fine vita interpella anche un’attrice come Cristiana Capotondi, che invita a non rimuovere dall'orizzonte la presenza della morte affrontando il decadimento fisico senza aggrapparci alla nostra idea di salute e di perfezione
December 12, 2025
«Non giudico chi soffre, c’è una soglia da rispettare»
Con la serie di articoli "Scegliere sulla vita" stiamo ascoltando voci e sensibilità differenti, in dialogo tra loro, sulle domande aperte dal tema del suicidio assistito e delle regole da adottare. Ascoltiamo l'intervento per Avvenire dell'attrice Cristiana Capotondi
Leggere le diverse riflessioni sul tema del fine vita che Avvenire sta raccogliendo mi ha suscitato alcuni pensieri. La finestra che il mio lavoro nel mondo del cinema e della televisione mi apre sulla società è particolare e, forse, anche privilegiata: l’ambiente dello spettacolo è specchio dei nostri tempi. Non possiamo dimenticare quanto il cristianesimo abbia contribuito a far crescere il valore della vita. L’esistenza di ogni singola persona riceve, dalla fede cristiana, una luce straordinaria. Questo è il nostro patrimonio culturale che non dobbiamo dissipare, in quello che papa Francesco ha chiamato «un cambiamento d’epoca». Nello smarrimento collettivo, mi pare una grande opportunità che alcune verità rimangano fermCristia
Cristiana Capotondi
Cristiana Capotondi
La morte è evento di rilevanza estrema perché muore una persona, e il pensiero ebraico-cristiano ci ricorda che chi salva una vita salva il mondo intero. D’altra parte, è la medesima visione cristiana che ci chiama a immedesimarsi con l’altro, a mettersi nei suoi panni, anche quando – o proprio quando – la situazione si fa complessa, difficile, decisiva. La nostra generazione è anche figlia della rivoluzione del “sé”. Vivere, per l’uomo occidentale moderno, è creare, immaginare, muoversi, ricercare la felicità non escludendo affatto la ricerca del piacere, dello star bene con sé stessi e con gli altri. Vivere, in tempi moderni, è realizzare e realizzarsi. Prendere in mano la propria vita e darle una svolta, una direzione. Penso alla fatica, anche, che hanno fatto le donne perché questa libera autonomia fosse vera anche per loro. Una fatica che nel mondo, per tante, non è certo finita. Quando sopravviene una improvvisa o lenta ed estenuante malattia grave e invalidante questi presupposti che disegnano la vita moderna vengono meno. All’umanità dei nostri tempi per esprimere un’anima serve un corpo. Un corpo adeguato, adatto. Spetta ai filosofi, ai teologi e ai grandi pensatori comprendere come siamo arrivati a questo. Che però è quel che si vede, che accade.
Non possiamo giudicare, allora, chi non riesce più, in condizioni di grave malattia, a sopportare un corpo che ormai non risponde, non disponibile alla ragione e divenuto solo fonte di dolore e sofferenze. Non ho risposte adeguate. So solo che la mia fede mi dice che l’altro, chiunque sia, è importante non solo ai nostri occhi umani ma agli occhi di Dio. In qualche modo, mi consola ancora il pensiero che l’anima possa lasciare un corpo e continuare a esistere, a rimanere nell’essere. Proprio grazie alla visione cristiana dell’uomo, sento stretto e inadeguato qualsiasi accanimento o trattamento sproporzionato, eccessivo. Non sento una contraddizione tra il voler vivere per sempre nell’eternità e il voler lasciare il proprio corpo. E mi colpiscono sempre, ai funerali, le parole del sacerdote: “Nelle tue mani, Padre, consegniamo l’anima del nostro fratello...”. Affidiamo un’anima alla vita, a chi può garantirne una. Quando si legge o si ascolta la storia drammatica di una persona che ha voluto essere aiutata a suicidarsi si prova grande dolore e sgomento. Come è possibile arrivare a tanto? Eppure, credo che davanti a certe decisioni bisogna lasciarsi interrogare per assicurare ogni cura, ogni eliminazione del dolore ma anche sapersi fermare. C’è una soglia intima che non possiamo violare.
Parlare di questi temi è un gran bene, è di enorme opportunità. Perché sempre più spesso, davanti alla malattia grave, ci si vergogna o ci si ritira. Si muore prima di morire. Anche qua, non dobbiamo giudicare nessuno. Ma viviamo in una società dove il morire, la malattia che vi conduce, sono spesso tabù. Si finge di stare meglio, di non avere bisogno, che non stia accadendo niente. Fa vergogna un corpo non più bello, che si ammala e si disfa. Si tende a nasconderlo, perché quasi ci vergogniamo che non funzioni più. È la mentalità mondana per cui conta ciò che appare, come ti presenti. Conterebbe, per il mondo dei consumi, solo ciò che funziona alla perfezione. L’anima non sa presentarsi da sola, ha bisogno di un corpo? Ma anche lei “funziona”, esiste.
Parlare di come morire fa bene, aiuta. Aiuta l’anima a sapersi presentare, a mostrarsi visibile anche quando un corpo non la sostiene più. C’è uno stigma attorno alla malattia grave che va affrontato e combattuto. Dando parole, senso e significato alla vita fragile e malata. Rimanendo accanto, perché il cuore della compassione è stare vicini e non lasciare soli. L’attaccamento alla vita, però, può anche avere un limite: attaccarsi a quella eterna.
Cristiana Capotondi è attrice

© RIPRODUZIONE RISERVATA