Non lo avevamo sognato: il futuro era già qui
di Davide Re, inviato a Torino
Due mostre alle OGR Torino - da Laure Prouvost a “Electric Dreams” - ci dicono come l’arte possa spiegare la scienza e la tecnologia. Pure anticipandole

Alle OGR Torino (Corso Castelfidardo, 22) l’arte non si limita a occupare lo spazio: lo misura, lo interroga, lo deforma secondo logiche che sembrano uscire da un laboratorio tecnologico o di fisica, oltre che da una galleria espositiva, che nasce proprio per intrecciare arti, ricerca e innovazione. Perché è quasi inevitabile leggere le due grandi mostre (fino al 10 maggio 2026) presentate in contemporanea – Laure Prouvost, "We Felt a Star Dying” e “Electric Dreams. Art & Technology Before the Internet” – attraverso il principio di indeterminazione di Heisenberg. Infatti, non puoi “misurarne” una senza alterare la percezione dell’altra e viceversa. E soprattutto, non puoi pensare di separarle. La prima agisce sul presente, sulle tecnologie emergenti, come il quantum computing, che ridisegnano la nostra idea di realtà; la seconda scava nelle radici del rapporto tra creatività e macchina, nei decenni in cui l’elettronica era ancora promessa più che infrastruttura. È come se l’esposizione di Prouvost mostrasse il futuro introdotto un tempo e diventato oggi più pieno nella seconda rivoluzione quantistica, mentre Electric Dreams ricordasse che tutto è già stato immaginato prima, in altre forme, con altre tecniche, in un’altra epoca, dominata dalla stessa inquietudine.
Entrando nel Binario 1, l’installazione di Prouvost travolge immediatamente con la sua ambiguità controllata: un ambiente dove luce, suono, profumi metallici e sculture cinetiche oscillano come se rispondessero a leggi non visibili, a una sorta di grammatica interna del “caso”. L’opera si presenta come un ambiente multisensoriale e immersivo, che include video e suoni generati “da un possibile computer quantistico”, oltre a elementi scultorei e olfattivi. Le immagini si dissolvono in puro rumore (che nel quantum computing ha un significato ben preciso) e riemergono in forma imperfetta, offrendo scorci di una realtà che sfugge a ogni previsione. Queste transizioni si propagano attraverso suono, luce e movimento, immergendosi nell’instabilità, nell’entanglement e nell’infinita generatività tipiche dei sistemi quantistici. Anche il rumore ambientale, appunto, entra in gioco: raggi cosmici, calore e campi magnetici influenzano l’opera così come interferiscono con le macchine quantistiche reali. Il risultato è un ambiente che oscilla tra sincronicità e disintegrazione. Per certi aspetti non si interagisce direttamente con l’opera ma attraverso il concetto fisico di “campo”, come nella fisica atomica, in quel mondo microscopico dove le leggi della meccanica classica non esistono più e trovano dimora quelle della quantistica, dove il futuro è probabilistico e non deterministico. Così il cuore del progetto è un esperimento radicale: registrare rumore quantistico reale – quella fluttuazione – e incorporarlo in modelli di intelligenza artificiale, lasciando che le immagini si dissolvano in imperfezioni imprevedibili e tornino a emergere da una materia vibrante e instabile . Qui la tecnologia non è strumento, ma condizione esistenziale: la macchina diventa organismo, espira in sincronie intermittenti, assorbe il calore del pubblico e lo restituisce come movimento, come se tutto fosse parte di un unico sistema aperto, appunto, alle interferenze cosmiche. Perfino l’esplosione di una stella lontanissima può alterarne il funzionamento, come ricorda il titolo stesso della mostra.

Eppure, per comprendere davvero la portata di questa instabilità, bisogna spostarsi al Binario 2. “Electric Dreams”, la grande ricognizione storica sulla sperimentazione artistica tra anni Cinquanta e primi Novanta, racconta che quell’indeterminatezza è sempre stata la condizione naturale del rapporto fra arte e tecnologia. Gli artisti pionieri dell’elettronico – dai collettivi cinetici al gruppo Zero, dall’Arte Programmata alle Nuove Tendenze – intuivano già allora che la macchina non era un dispositivo neutro, ma un campo di forze imprevedibili, un territorio dove il controllo si mischia alla possibilità e dove l’errore diventa parte del processo. Molti di loro si muovevano tra matematica, cibernetica, luce pulsante e pattern ottici, costruendo opere che non potevano essere fissate una volta per tutte: erano sistemi aperti, ambienti in cui l’osservatore diventava co-autore, disturbatore, variabile accidentale. È sorprendente quanto questo dialogo, a distanza di oltre mezzo secolo, risulti naturale, anzi contemporaneo. Le installazioni cinetiche e gli ambienti ottici degli anni Sessanta, come l’ipnotico "Ambiente Cromointerferente" di Carlos Cruz-Diez, basato sull’interferenza di linee mobili che generano colori inesistenti nella realtà, funzionano oggi come una preistoria dell’instabilità quantistica: anche lì l’immagine non è mai definitiva, ma nasce dall’interazione fra luce, corpo e movimento, da un fenomeno percettivo che esiste solo nel presente della fruizione. In altre sezioni, artisti e ingegneri che sperimentavano con computer grandi quanto stanze, linguaggi di programmazione scientifici e plotter meccanici anticipavano l’idea contemporanea di algoritmo come partner creativo, non come semplice esecutore di istruzioni.
«Le due mostre segnano una traiettoria che parte dal passato per arrivare al futuro del rapporto con la tecnologia: dalla recente archeologia della prima cibernetica fino al quantum computer, rivelano come il pensiero e le visioni degli artisti abbiano risposto, opposto e spinto il progresso tecnologico, fungendo spesso da spazio di riflessione sull’innovazione. Electric Dreams ci riporta pratiche di artisti che, criticando il potenziale distruttivo della tecnologia bellica, usavano i nuovi mezzi a disposizione con una forte spinta utopica per rifondare il presente, dalle esperienze delle Nuove Tendenze fino all’hackeraggio dei primi personal computer - spiega il curatore delle mostre Samuele Piazza -. La mostra di Laure Prouvost suggerisce come un’artista possa entrare in relazione con i concetti più astratti e controintuitivi della fisica quantistica, cercando di trasformarli in un’esperienza incarnata, complessa e ricca di stimoli. Proprio come gli artisti dell’altra mostra, ci presenta una ricerca contemporanea che non abbandona interi campi della scienza al sapere specialistico, ma impara a dialogare con essi portando i propri mezzi e le proprie particolarità».
Le opere quindi diventano processi, un campo di probabilità, una traiettoria che non si lascia fissare. E soprattutto, in entrambi i casi, il tempo non scorre in modo lineare: nelle sperimentazioni pre-Internet, come nelle tecnologie quantistiche odierne, il presente è sempre una sovrapposizione di stati, una rete di possibilità che si attualizzano solo nell’incontro con il pubblico. E alle OGR, questa simultaneità diventa tema, architettura, postura mentale. Anche perché, come dice Davide Canavesio, presidente di OGR Torino «crediamo che il futuro si costruisca solo mettendo in dialogo mondi diversi. L’arte ci insegna a guardare in profondità; la tecnologia ci spinge a immaginare ciò che ancora non esiste. Qui questi due sguardi convivono. È un laboratorio di sperimentazione». Nel percorso espositivo, il passato non precede il presente: lo interferisce. In tutto questo, l’indeterminazione non è un limite, ma una forma di intelligenza. È ciò che permette all’arte di cogliere i cambiamenti prima che diventino cultura e scienza e di tradurre la complessità senza semplificarla. Alle OGR, questo principio attraversa tutto – dall’immaginazione radicale dei collettivi anni Sessanta al respiro instabile delle macchine quantistiche – ricordandoci che il futuro non nasce mai dal controllo, ma dall’apertura all’imprevisto. Dal rumore. Da ciò che sfugge, devia, disturba e costringe a vedere di nuovo. Che è un po’ la sintesi del progetto espositivo che c’è a Torino. «Con le OGR, la Fondazione CRT ha dato forma concreta alla propria visione: trasformare un’eredità industriale in un motore di futuro, accessibile a tutti - conclude la presidente della Fondazione CRT Anna Maria Poggi -. La compresenza di cultura, tecnologia e ricerca nasce da una convinzione precisa: solo dalla contaminazione tra discipline diverse possono nascere opportunità concrete per il territorio e il bene comune».
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