Noi psichiatri responsabili dei più fragili: non possiamo “farli morire”
di Anna Comparelli
Nel confronto su come andrebbe scritta una legge sul suicidio assistito interviene anche una psichiatra: che ricorda come i professionisti della salute mentale hanno il dovere di prevenire il suicidio e non gli si può chiedere di autorizzarlo

Avvenire ha aperto un confronto sulle ragioni della vita umana - etiche, giuridiche, mediche, antropologiche, dottrinali - di fronte a una possibile legge sul suicidio assistito, ospitando firme illustri tra diritto, medicina, teologia, bioetica (tutti gli interventi reperibili cercando "Scegliere sulla vita"). Ecco la riflessione della psichiatra Anna Comparelli
Il disegno di legge sulla disciplina del “fine vita”, attualmente in discussione al Senato, prevede, tra le altre disposizioni, la presenza di uno psichiatra all’interno del Comitato nazionale di valutazione, incaricato di esaminare le richieste di suicidio medicalmente assistito. Una tale previsione solleva questioni delicate e complesse, legate alla natura stessa della professione dello psichiatra e al mandato etico e deontologico che le è proprio.
Nella prassi clinica, lo psichiatra è chiamato a tutelare la vita di pazienti che manifestano, in modo esplicito o implicito, il desiderio di morire a causa di una sofferenza che ne condiziona la libertà di scelta. Secondo la giurisprudenza (Cassazione n. 33609/2016), egli riveste una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti, anche in assenza di ricovero involontario, e deve pertanto adottare tutte le misure necessarie per prevenire il rischio suicidario.
Per questi motivi appare paradossale che oggi lo psichiatra sia chiamato a far parte di un organo che, in determinate circostanze, può contribuire a legittimare la decisione di porre fine alla vita. La sua presenza nel Comitato nazionale di valutazione (o in eventuali organi territoriali equivalenti) rischia di generare un conflitto etico e deontologico tra il dovere di prevenire il suicidio e l’obbligo di esprimere un parere che, di fatto, potrebbe autorizzarlo.
Lo psichiatra è chiamato a valutare se la volontà di morire esprima una scelta realmente lucida e consapevole o, al contrario, sia influenzata da una condizione psicopatologica che ne limita l’autonomia. Si tratta di un giudizio complesso, che può essere controverso. Nei pazienti affetti da patologie terminali o da gravi disabilità, tale volontà può apparire razionale, pur non essendolo. In questi casi, la distinzione tra sofferenza fisica e psichica tende a dissolversi: corpo e mente si confondono in un’unica esperienza di dolore, che rende difficile un pieno esercizio della capacità di autodeterminazione.
È innegabile, d’altra parte, che alcuni disturbi mentali provochino sofferenze tanto intense e intollerabili da risultare paragonabili a quelle dei pazienti terminali; non a caso l’esito infausto di alcune condizioni psichiatriche è proprio il suicidio. Si tratta di situazioni in cui la sofferenza psichica assume forme croniche, progressive e radicali, in cui la patologia, che qui può certamente definirsi irreversibile, riduce la vita interiore a una sopravvivenza priva di relazione e di un senso umanamente comprensibile. A tal proposito vale la pena rilevare che, nelle formulazioni legislative attualmente in esame, è venuto meno il riferimento esplicito che, in precedenti versioni, escludeva le patologie psichiatriche e psicologiche dall’accesso al suicidio medicalmente assistito.
Questa nuova impostazione potrebbe aprire, in modo preoccupante, alla possibilità di includere anche alcune condizioni psichiatriche tra i casi ammessi, laddove la capacità di autodeterminazione non risulti stabilmente compromessa e i trattamenti di sostegno vitale, ancora privi di una definizione univoca, vengano identificati con le terapie psico-farmacologiche.
Il dibattito sul fine vita rischia di focalizzarsi in modo fuorviante sulla sola distinzione tra chi possiede la piena capacità di autodeterminazione e chi non la possiede, lasciando in ombra altri nodi etici e clinici essenziali. Eppure, la legge 219/2017 sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento già riconosce il principio di autodeterminazione, richiamando però, all’articolo 2, il dovere del medico di «adoperarsi per alleviare le sofferenze» e di «assicurare cure appropriate anche in caso di rifiuto o revoca del consenso al trattamento sanitario indicato». Questo principio dovrebbe essere esteso a chi non ha la capacità o non ha più la forza di esprimere un consenso consapevole, ma rimane titolare del diritto alla cura e al rispetto della propria persona.
Il ruolo dello psichiatra non può consistere dunque soltanto nella valutazione della capacità del soggetto di decidere in modo libero e informato, ma deve includere, e anzi privilegiare, la verifica che siano state offerte e attuate tutte le possibilità terapeutiche appropriate, psico-farmacologiche, psicologiche e sociali, in grado di migliorare la condizione del paziente e di ampliare la sua capacità di autodeterminazione. Spetta inoltre allo psichiatra accertarsi che la decisione maturi in un contesto in cui la persona sia sostenuta da una relazione terapeutica capace di restituire senso, fiducia e possibilità di scelta. Una prospettiva di questo tipo avrebbe valore solo se al paziente fosse realmente garantito l’accesso ai trattamenti necessari, in modo tempestivo e adeguato; ciò ridurrebbe il rischio che la richiesta di fine vita esprimesse la reazione alla mancanza di cure e di sostegno, piuttosto che alla sofferenza stessa.
Anna Comparelli è psichiatra nell’Azienda Ospedaliero Universitaria Sant’Andrea di Roma
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