La vita è ancora un bene "indisponibile"?
Al centro del confronto sulla depenalizzazione per legge del suicidio assistito c’è una domanda fondamentale: le risposte di san Giovanni Paolo II e della Costituzione. La riflessione del teologo gesuita Carlo Casalone

Avvenire ha aperto un confronto sulle ragioni della vita umana - etiche, giuridiche, mediche, antropologiche, dottrinali - di fronte alla grande questione del fine vita e di una possibile legge sul suicidio assistito, ospitando firme illustri del diritto, della medicina, della teologia, della bioetica (tutti gli interventi reperibili cercando "Scegliere sulla vita"). Ecco la riflessione del gesuita padre Carlo Casalone.
La disponibilità della vita umana è un tema molto discusso in ambito bioetico. Il dibattito sulla regolamentazione giuridica dell’assistenza al suicidio lo ha riportato alla ribalta. A dire il vero, pure le guerre che insanguinano il mondo richiederebbero una riflessione sullo stesso argomento. Ma qui ci limiteremo al primo contesto.
Soprattutto in ambito cattolico, si è insistentemente sottolineato che la vita è indisponibile. La persona, come dice san Giovanni Paolo II, non può decidere «arbitrariamente di vivere o di morire; di tale scelta, infatti, è padrone assoluto soltanto il Creatore» (enciclica Evangelium vitae, n.47). Ci aiuta a chiarire questa affermazione un’altra appena precedente, nello stesso paragrafo: «La vita del corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore». Come modello viene portato Gesù, che «non esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa della sua vita una offerta al Padre e ai suoi», come dice il Vangelo di Giovanni (15,13). Di seguito si menziona la scelta dei martiri, che fanno altrettanto.
Ma già dall’esordio l’enciclica presentava la vita nel tempo come condizione fondamentale e parte costitutiva di un processo che trova il suo compimento nell’eternità, per cui la «vita terrena [...] non è realtà “ultima”, ma “penultima”» (n.2). È questa la prospettiva in cui interpretare la vita come «realtà sacra che ci viene affidata perché la custodiamo con senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell’amore e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli» (n.2). Siamo dunque affidati a noi stessi, affinché disponiamo della nostra vita. Il punto è che la scelta sia non arbitraria ma piuttosto nella logica del dono e della solidarietà: come ha fatto il Signore, che ha deciso se e quando era venuta l’ora di consegnarsi. Anche in questo siamo chiamati a seguirlo.
In altri termini, la libertà umana non è assoluta, cioè svincolata da ogni legame, ma è suscitata da un’azione che la precede. Questo significa l’istanza dell’indisponibilità della vita: noi non siamo creatori di noi stessi. Della vita siamo anzitutto passivi destinatari, in quanto l’abbiamo gratuitamente ricevuta. In tal senso essa è nella sua radice indisponibile, perché dipende da un’iniziativa non nostra ma di altri che ce l’hanno trasmessa, mediando l’agire del Creatore. Al contempo, però, la libertà è attiva e chiamata a disporre di ciò che ha ricevuto, dunque del dono stesso della vita.
Si comprendono quindi i criteri secondo cui la tradizione della Chiesa ha sempre accettato scelte in cui si dispone della propria vita. Per cui affermiamo che è doveroso evitare l’accanimento terapeutico (o meglio: l’ostinazione irragionevole), cioè omettere o sospendere trattamenti sproporzionati, anche quando supportano funzioni vitali. Così facendo rinunciamo a contrastare la patologia e a protrarre la vita, lasciando che la morte avvenga.
Il “bene superiore” qui ricercato non riguarda immediatamente la solidarietà o il servizio di altri: si ricerca piuttosto, in un momento lacerante dell’esistenza, uno stato di maggiore serenità, con gli altri e con Dio. In questa logica argomentava già nel 1957 Pio XII, che, in mancanza di alternative, legittimava l’uso di farmaci per sopprimere il dolore anche quando si prevedeva che avrebbero accorciato la vita, poiché l’analgesia «procura una distensione organica e psichica, facilita la preghiera e rende possibile un più generoso dono di sé».
Per disporre della vita in modo non arbitrario occorre quindi tenere conto degli altri, con cui siamo sempre più o meno direttamente in relazione. Questo vale per tutte le scelte, non solo nella sfera etica ma anche in quella giuridica: pur ben consapevoli della differenza tra i due profili, per cui la formulazione delle leggi non sempre coincide con le nostre scelte etiche, vanno sempre considerati gli effetti sull’intero corpo sociale. Anche il nostro ordinamento giuridico prevede dei limiti alla disposizione del proprio corpo in nome del bene comune. L’articolo 32 della Costituzione ammette che la legge possa imporre alcuni comportamenti circa la salute (per esempio, il trattamento sanitario obbligatorio o le – tanto discusse – vaccinazioni). Ma anche si proibisce la donazione da vivente di organi vitali e insostituibili o, più semplicemente, si prescrivono le cinture di sicurezza in automobile.
La questione dell’assistenza al suicidio comporta certamente molti altri aspetti, ma questa riflessione previa sul rapporto tra passività (indisponibilità) e attività (disponibilità), costitutivo della nostra libertà, può aiutare la ricerca di un terreno comune. In una società democratica e pluralista, il tema è suscettibile di diverse interpretazioni. Si tratta di identificare un perimetro condivisibile, come hanno cercato di fare le recenti sentenze della Corte costituzionale; un perimetro da cui comunque esorbita la morte procurata da terzi, cioè l’eutanasia.
Padre Carlo Casalone, gesuita, è docente di Teologia morale
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