«Il dolore non necessario esiste, ma c’è il rimedio: le cure palliative»

Eduardo Bruera è considerato oggi il punto di riferimento della medicina paliativa in tutto il mondo. Argentino, lavora in Texas. E a Milano (dove tutto è iniziato...) spiega cosa sono davvero le cure palliative: ancora incomprese, eppure decisive per la qualità di vita dei pazienti con patologie complesse, lungo tutta la malattia
November 11, 2025
«Il dolore non necessario esiste, ma c’è il rimedio: le cure palliative»
Un gigante di statura, ma anche di gentilezza e umanità. Così si presenta Eduardo Bruera, medico argentino, pioniere delle cure palliative, direttore del reparto di Medicina Palliativa al MD Anderson Cancer Center di Houston, il più grande ospedale oncologico al mondo. Bruera, è stato recentemente a Milano, dove nei giorni scorsi ha tenuto una lectio magistralis al convegno «Le cure palliative in Italia e l’Università: un lungo cammino, un importante futuro» all’Università degli Studi di Milano, nella vigilia della Giornata mondiale delle cure palliative che si celebra l'11 novembre.
Professor Bruera, cosa l’ha spinta a occuparsi di questo ramo della medicina quando ancora non era conosciuto?
Ho cominciato a formarmi come oncologo all’Università di Buenos Aires, la mia città, ma il training mi ha un po’ deluso. Vedevo tanta sofferenza nei pazienti e nelle loro famiglie, che la medicina biomedica non riusciva a comprendere, e che anzi spesso tendeva a negare. Un giorno arrivò a Buenos Aires un professore da Milano, Vittorio Ventafridda, uno degli antesignani delle cure palliative in Italia. Tenne una conferenza bellissima nell’aula magna della Facoltà di Medicina. Ad ascoltarlo eravamo solo in quattro, e mi convinse che era quella la strada che volevo seguire. Possiamo dire che il mio percorso è cominciato, in qualche modo, proprio da Milano.
Eduardo Bruera durante il convegno di Milano sulle cure palliative
Eduardo Bruera durante il convegno di Milano sulle cure palliative
In quali modi la medicina palliativa può migliorare la vita dei pazienti?
La sofferenza è universale. Non si può trasformare la morte, per cancro o per qualsiasi altra malattia, in un momento gioioso. Esiste però tantissima sofferenza non necessaria: dolore, fatica, nausea, angoscia, mancanza di connessione personale e spirituale. Le cure palliative arrivano a questa sofferenza e riescono ad aiutare e ad accompagnare questi pazienti nel momento più vulnerabile della loro vita. È dimostrato in studi clinici randomizzati che le cure palliative sono capaci di cambiare enormemente la sofferenza del paziente e della sua famiglia. Inoltre, è provato che possono far risparmiare miliardi ai sistemi sanitari in tutto il mondo.
È vero, come si sente dire, che le cure palliative sono solo per i tumori, e solo per il fine vita?
La sofferenza non arriva solo per i malati oncologici e terminali. Anche chi è affetto da una malattia cronica soffre. Anzi, il momento più efficace per le cure palliative è proprio all’inizio di una malattia, quando si cominciano a presentare i primi problemi di gestione e di qualità della vita quotidiana. Non è importante la fase della malattia, iniziale o terminale; il palliativista lavora con la sofferenza umana in qualsiasi momento si presenti. Noi lavoriamo con Giovanni, Carlo, Maria, non con un foglio di diagnosi.
Come si trova un equilibrio tra medicina, etica e compassione umana nelle situazioni più complesse?
Questo è molto importante, è nel confronto tra la scienza medica e la scienza per l’uomo che si deve trovare un equilibrio. Papa Francesco aveva affermato che la medicina palliativa è l’essenza della cura perché è per la persona. Tante volte il meglio che la scienza può offrire è causa di sofferenza per il paziente: è in questi casi che bisogna ricordarsi che la medicina non è fine a sé stessa. La cura palliativa integra scienza e bisogni del paziente in modo meraviglioso, aiutando il malato a essere protagonista. Se, ad esempio, per un uomo è molto importante arrivare al matrimonio della figlia, ha senso che palliativista, nefrologo e oncologo, di concerto tra loro, dispongano una dialisi e la somministrazione di farmaci per regalargli qualche giorno in più e permettergli di arrivare lucido a questo importante appuntamento. In un ospedale che funziona dovrebbe anche essere possibile organizzare il rito del matrimonio in reparto. Se, invece, un trattamento può regalare anche due mesi in più a una persona, impedendo però al paziente di trascorrere un’ultima settimana nella sua amata casa in campagna, come lui desidera, allora quel trattamento non ha ragione d’essere. Il contesto fa la differenza, ed è del tutto personale.
Com’è cambiato il mondo delle cure palliative in questi anni e come lo vede per il prossimo futuro?
Il futuro lo vedo benissimo, perché esiste una generazione di medici che ha portato le cure palliative all’interno dell’Università, come il professor Augusto Caraceni a Milano. I giovani medici interessati alle cure palliative hanno l’enorme opportunità di esprimere il proprio talento e di dare un contributo alla crescita di questa scienza e della società tutta.
Quali ostacoli ci sono ancora nel sistema sanitario globale a un’ulteriore diffusione delle cure palliative?
Il primo ostacolo è l’ignoranza di molti leader che occupano posizioni chiave nelle università e nei sistemi sanitari e che considerano la medicina palliativa un ambito marginale, ignorandone il valore. La soluzione sta nell’educazione: far capire che la cura palliativa non è “contro” nulla e nessuno. Dobbiamo evitare che in medicina si crei quella stessa disuguaglianza di cui parlava Martin Luther King a proposito della società della segregazione. Non può esserci una medicina biomedica che detiene tutto il peso e un falso senso di superiorità, mentre la medicina umanizzata resta ai margini, con un falso senso di inferiorità. Entrambe le visioni sono parziali e sbagliate: le due medicine devono dialogare, perché entrambe si prendono cura dello stesso essere umano, dell’uomo e della donna nella loro interezza.
Cosa direbbe a un giovane medico che ha paura di affrontare la sofferenza e la morte?
Gli direi due cose. Primo: alleviare la sofferenza è una sfida intellettuale, per questo esiste una specializzazione. Si deve studiare per fare questo lavoro, non basta essere una “buona persona”. Secondo: gli farei capire che un medico si sente veramente molto meglio quando può aiutare un paziente nei momenti più vulnerabili della sua vita. Sicuramente dobbiamo conoscere i limiti dei nostri interventi e regolamentare l’approccio al fine vita. Ma la fine della vita arriva per tutti, è una questione universale. Invece la medicina ha voltato la schiena alla sofferenza e alla morte. Personalmente, praticare la medicina palliativa ha dato un senso diverso a tutta la mia vita.
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