Per le maratonete di Kish
una vittoria senza velo

Alla competizione sull'isola iraniana molte donne hanno corso senza hijab, in violazione della legge sulla “castità e il velo” irrigidita nel 2024
December 10, 2025
Per le maratonete di Kish
una vittoria senza velo
Alcune partecipanti alla Kish Marathon, in Iran/ WEB X
In Iran anche correre una maratona può diventare un atto politico. È successo sull’isola di Kish, nel Golfo Persico: oltre cinquemila persone al via, uomini e donne in prove separate (la gara femminile alle cinque del mattino) nella sesta edizione di una corsa che il regime ama presentare come vetrina turistica di un Paese “aperto” e moderno. Questa volta, però, le immagini che hanno fatto il giro del mondo non raccontano la bellezza paesaggistica, ma i capelli sciolti di molte donne che hanno corso senza hijab, in aperta violazione della legge sulla “castità e il velo” irrigidita nel 2024. La risposta è stata immediata: la magistratura ha annunciato l’arresto di due organizzatori, un funzionario dell’ente che gestisce la free zone di Kish e un rappresentante della società privata che cura l’evento, accusati di aver permesso una “violazione della pubblica decenza”. I media ultraconservatori hanno parlato di “spettacolo indecente” e ancora una volta, dopo la morte di Mahsa Amini nel 2022, il corpo delle donne è diventato campo di battaglia e strumento di controllo politico. Eppure, quelle immagini mostrano la testarda normalità di ragazze di una Gen-Z iraniana che ascolta rap, balla, posta video e ora si mette un pettorale per urlare la propria voglia di libertà. In un Paese dove togliersi il velo può costare frustate, prigione, persino la vita, affrontare una corsa podistica a capo scoperto sembra una forma di referendum silenzioso, nella forma che più di tutte racconta la fatica: la maratona è lunga, solitaria, richiede una certa dose di ostinazione. In Iran, oggi, la libertà femminile assomiglia molto a quella corsa: una successione di piccoli passi, di gesti che sembrano piccoli, ma che, messi uno dietro l’altro, disegnano un cammino irreversibile. C’è l’arrampicatrice Elnaz Rekabi che gareggia a capo scoperto a Seul, le atlete fuggite e oggi rifugiate altrove, le attiviste punite per una foto sui social senza hijab. E ora ci sono le ragazze di Kish, che forse non si sentono eroine, ma lo diventano loro malgrado. Lo sport, in questa storia (come sempre), è un amplificatore. Non può mai essere neutrale: o è spazio di controllo o diventa laboratorio di diritti. La federazione di atletica iraniana aveva provato a far annullare la corsa; il governo, sotto pressione delle fazioni più conservatrici, risponde con gli arresti per riaffermare la forza della legge, ma la distanza tra legge islamica, codice penale e la vita reale si allarga: nelle grandi città sempre più donne camminano a capo scoperto, nei caffè, sui mezzi pubblici, negli stadi (quando riescono ad entrarci). Le ragazze della “Kish Marathon” non sono un incidente, ma un segnale. Il regime può arrestare gli organizzatori, moltiplicare le multe, oscurare i video, ma non potrà cancellare la memoria di quel gruppo di maglie colorate in cui i volti delle donne sono finalmente visibili. Anche da qui, dalla nostra distratta Europa, dovremmo ricordare che lo sport è manifestazione di diritto. Diritto a usare il proprio corpo senza paura, diritto a correre guardando la strada davanti, non le ombre alle proprie spalle. Le maratonete di Kish non chiedono che questo: poter arrivare al traguardo senza che qualcuno decida, al posto loro, come devono vestirsi, credere, vivere. Presto o tardi, taglieranno il traguardo. Vincitrici.

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