Ho visto all'opera il Sinneraz. Dominerà per anni
Nel tennis Sinner e Alcaraz rappresentano ormai una specie di essere mitologico. Una macchina perfetta che ogni tanto si scinde e mostra due uomini in carne e ossa

Ho avuto la fortuna di assistere dal vivo a uno degli eventi sportivi più entusiasmanti ed emozionanti dello sport contemporaneo, le ATP finals, il torneo dove si sfidano gli otto migliori tennisti al mondo, arrivato alla sua quinta edizione a Torino. Certamente, e di gran lunga, questo torneo si dimostra la manifestazione sportiva più importante ospitata dal nostro Paese, almeno fino al prossimo 6 febbraio, quando inizieranno i Giochi Olimpici invernali di Milano-Cortina. Non mi soffermerò sul confronto con l’ennesima avvilente serata calcistica, preceduta da un’altra dove addirittura sugli spalti era comparso un mostruoso striscione giustificatorio dell’assassinio del povero autista di pullman Raffaele Marianella, vittima della sassaiola fra ultras sulla superstrada Rieti-Terni. Il confronto fra tennis e calcio, in termini di spirito agonistico, risultati, fair-play, bellezza, coinvolgimento del pubblico, atmosfera è davvero impietoso e si commenta da sé. Voglio tornare piuttosto sui due protagonisti della splendida finale. Ho parlato spesso, in questa rubrica, di Jannik Sinner, ma credo sia ormai più corretto ragionare su quella specie di essere mitologico, il “Sinneraz”, che domina e dominerà la scena per i prossimi (tanti) anni. Domenica ne ho vista in campo una delle sue rappresentazioni migliori, manifestatosi in una partita sublime dove, dopo un’ora e undici minuti di gioco, la situazione era ancora in totale e assoluto equilibrio 6-6 e 1-1 al tiebreak del primo set. Fino a quel momento il Sinneraz era rappresentato da due macchine perfette, che non si erano concesse nulla. Parità assoluta, rispetto assoluto, equilibrio assoluto. Se Omero avesse messo anche il tennis nei giochi organizzati da Achille in memoria di Patroclo, avrebbe fatto finire lì la partita assegnando il pareggio, proprio come fece con Odisseo e Aiace Telamonio nel libro XXIII dell’Iliade, lasciando intuire che astuzia e forza, in ogni combattimento, devono equivalersi. Invece gli dei del tennis hanno voluto che proprio nel tiebreak del primo set il Sinneraz, la macchina perfetta, iniziasse a scindersi, a far tornare uomini in carne ed ossa i due protagonisti. Da lì in poi variazioni di colpi, qualche errore, un po’ di nervosismo, a turno, con le rispettive panchine, break, controbreak, addirittura Sinner che porta la mano all’orecchio come fa di solito Alcaraz per esaltare l’applauso del pubblico e Alcaraz che non batte ciglio come di solito fa Sinner. Insomma, la partita diventa umana e fa impazzire i tifosi, gli esperti, i telespettatori che boicottano perfino i telegiornali per non perdersi un punto di quel duello epico. Si ferma il Paese, come succedeva per le discese di Alberto Tomba o per gli scatti in salita di Marco Pantani. Ha vinto, alla fine, l’eroe di casa, lasciando in un silenzioso imbarazzo quelli che pensano che l’Italia non sia casa sua. Il punto è sempre lo stesso, mentre altri azzurri sprofondano, guidati (e non mi riferisco al commissario tecnico) sempre dalle stesse facce, da gente che danza sulle macerie da almeno dieci anni, inossidabili a qualsiasi disfatta, c’è un Italia che danza di felicità, nel rispetto e nella bellezza di uno show sportivo e di un pubblico da cui bisognerebbe imparare. Così come c’è da imparare dal Sinneraz, proprio quell’essere mitologico ricompostosi trenta secondi dopo l’ultimo punto, in un abbraccio sottorete, lungo, sincero, commovente.
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