Stampelle dolori e libertà: Wilma Rudolph, la Gazzella nera di Roma 1960

Guarita dalla poliomielite che da bambina le aveva piegato la gamba sinistra, fu la donna più veloce del mondo e, più ancora, simbolo di riscatto per la comunità afroamericana
November 12, 2025
Stampelle dolori e libertà: Wilma Rudolph, la Gazzella nera di Roma 1960
Livio Berruti e Wilma Rudolph ai Giochi Olimpici di Roma nel 1960 /Ansa
Ci sono amori che non accadono mai, eppure restano incisi nella memoria del mondo, come fossero durati tutta una vita. Wilma Rudolph e Livio Berruti non si sono mai amati davvero, almeno non nel modo in cui si raccontano le storie d’amore, ma per chi li ha visti correre sotto il sole di Roma, in quell’estate del 1960, è come se lo avessero fatto. Lei, la “Gazzella nera” del Tennessee, figlia con ventuno fratelli e sorelle di una famiglia poverissima, guarita per miracolo dalla poliomielite che da bambina le aveva piegato la gamba sinistra. Lui, il ragazzo elegante con gli occhiali scuri, nato a Torino e cresciuto tra i libri, che, in quello stesso Stadio Olimpico, divenne il primo bianco a vincere i 200 metri ai Giochi Olimpici. Wilma vinse tre ori, 100, 200 e staffetta 4x100, e regalò al mondo un sorriso che ancora oggi illumina un’epoca. Nessuno poteva immaginare che quella donna, la cui infanzia era stata un inferno di stampelle e dolori, sarebbe diventata un’icona della libertà. Roma 1960 fu anche questo: il sogno del corpo che vince sulla paura. Le immagini in bianco e nero mostrano Wilma e Livio seduti vicini, sorridenti, o che si tengono per mano. Si racconta che Cassius Clay, non ancora Muhammad Ali, avesse scherzato con il nostro Berruti: «Non provarci con Wilma, fratello». E Livio, con la sua grazia timida e un po’ torinese, fece un passo indietro. Wilma aveva imparato presto che la corsa era l’unico modo per non fermarsi a guardare il dolore. La poliomielite l’aveva colpita a quattro anni: i medici dissero che non avrebbe più camminato. Sua madre, invece, si rifiutò di credere a quella condanna. Ogni giorno, per anni, le massaggiò la gamba, la portò in ospedale, le insegnò la pazienza.
A Roma fu la donna più veloce del mondo e, più ancora, simbolo di riscatto per la comunità afroamericana. Tornò a Clarksville, nel Tennessee, e pretese che la sua parata trionfale fosse la prima manifestazione pubblica senza segregazione razziale nella storia della città. Fu un atto di coraggio, e insieme di dolcezza. L’anno dopo venne invitata alla Casa Bianca dal Presidente Kennedy, perché Wilma correva anche per questo: per dare un volto gentile alla lotta per i diritti civili. Wilma Rudolph se n’è andata a soli 54 anni un 12 novembre, come oggi, quello del 1994, stroncata da un tumore al cervello. Era tornata a insegnare, a lavorare con i bambini, a raccontare che la corsa più importante non era quella vinta a Roma, ma quella contro la malattia, contro l’ingiustizia, contro la paura.
Rivedere oggi quelle immagini di lei e Livio, giovani e bellissimi, è come aprire una finestra sul secolo breve: la leggerezza prima delle rivoluzioni, l’eleganza prima della rabbia, il sogno che ancora sembrava possibile. Erano due ragazzi che rappresentavano il meglio del mondo in cui vivevano: un’Italia fiduciosa e un’America che provava a guarire dalle sue ferite. Wilma e Livio non hanno corso insieme, ma per un istante le loro corsie si sono incrociate. E in quell’incrocio si è specchiata un’umanità che sapeva ancora credere nella bellezza dello sforzo, nella grazia del movimento, nella possibilità di vincere senza calpestare nessuno.

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