Tracy K. Smith: «La poesia è un bene civico»
La poetessa laureata parla dei versi come antidoto alla semplificazione del presente e impegno collettivo contro la retorica

Tracy K. Smith è un’autrice afroamericana, docente a Harvard, che ha scritto cinque sillogi: Life on Mars, la terza, è stata insignita del Premio Pulitzer. Ventiduesima poetessa laureata degli Stati Uniti dal 2017 al 2019, librettista e memoirista, Smith forgia versi melodici e aguzzi, orientati al language of the soul: spirito e rivendicazione politica insieme. La domanda del corpo (a cura di Elena Strappato, Interno Poesia, pagine 224, euro 18,00) è il suo primo libro, edito negli Stati Uniti nel 2003 e ora disponibile per il lettore italiano. Come osserva la curatrice nell’introduzione, il testo dà la possibilità di passare «da una lingua all’altra, anche nel mero spazio di un sintagma [...], con il code-switching accidentato di chi possiede solo i rudimenti di una lingua straniera. Un sincretismo e una sperimentazione che è coerente – anche se meno radicale – alla poetica post-soul del collettivo Dark Room». La madre, il Messico, le ortensie, le lettere notturne, la luce di Dio: «Qui c’è una storia che racconta / chi di noi sogna a occhi aperti / su note di acciaio e di cristallo».
La domanda del corpo ha degli evidenti legami con il gospel e gli spiritual.
Ho scritto la silloge negli anni successivi all’esperienza di mia madre, affetta da cancro terminale. La sua morte, quando lei aveva cinquantanove anni e io ventidue, è stata la perdita più importante della mia vita. Potrei sostenere che sia stato l’evento centrale della mia vita. E quindi ha senso per me che la musica gospel e gli spiritual – che spesso guardano all’aldilà come a un momento di ricongiungimento con Dio e a una tregua dalle sofferenze del mondo umano – siano stati una forma di consolazione nel mio dolore. Se non altro, mi hanno aiutato ad aggrapparmi alla speranza che mia madre fosse viva da qualche parte nello spazio e nel tempo, a godere delle promesse dell’eternità. Ma sapevo che ognuna di quelle canzoni era un veicolo di rassicurazione politica. Nei loro riferimenti alle storie dell’Antico Testamento sulla liberazione degli israeliti dalla schiavitù e sull’ingresso nella Terra Promessa, gli spiritual incoraggiano i neri a sentirsi figli di Dio: la libertà è un nostro diritto divino. Entrambi gli strati di questa struttura immaginativa continuano a permeare la mia opera, sebbene attraverso vocabolari e sistemi di immagini diversi.
Memoria, esperienza corporea e perdita sono temi altrettanto cruciali, soprattutto nella sequenza elegiaca Gioia.
Una delle lezioni più importanti che ho imparato scrivendo La domanda del corpo è che il dolore è semplicemente una manifestazione d’amore. Il dolore è desiderio, devozione, la volontà di avere qualcuno che ami vicino e di essere te stesso, pieno e sfacciato, con lui. Scrivere poesie sul ricordo, l’amore, la nostalgia, la paura e i tanti desideri che nutrivo mi ha aiutato a sentirmi come se stessi dicendo la mia sfacciata verità a mia madre. Più riuscivo a raccontare chi ero e come vivevo, più sentivo di avvicinarmi a mia madre non solo come figlia, ma come l’adulta che stavo diventando. Oserei dire che scrivere quelle poesie mi ha aiutato a diventare adulta.
E che ruolo giocano la lingua spagnola e il Messico nel libro?
In un momento della mia prima vita da autrice, quando ho sofferto di un terribile blocco dello scrittore, sono andata in Messico, ho imparato lo spagnolo, mi sono innamorata e ho iniziato a rendermi conto che altri aspetti della mia personalità e della mia voce si stavano manifestando. Vivere con qualcuno che non era americano, e che proveniva da un luogo profondamente influenzato dalla politica e dall’immaginario americani, ha avuto un impatto importante anche sulla mia crescita politica. Tutto questo mi è sembrato un risveglio, che permea in maniera naturale La domanda del corpo.
Nel suo ruolo di poeta laureato degli Stati Uniti, ha sottolineato l’importanza di rendere la poesia accessibile al di fuori dei circoli accademici o letterari.
In questo momento credo che la sfida più grande per la cultura americana risieda nello scardinare le abitudini linguistiche che ci rendono agguerriti, sempre sulla difensiva, sempre pronti a lanciare un attacco al “loro” che si oppone al nostro “noi”. Il linguaggio della divisione, della gerarchia, della convenienza, dell’efficienza, dell’egocentrismo e della paura o sfiducia nell’“altro” ci ha ostacolato nella nostra attitudine a riconoscerci e a collaborare. Non credo affatto che questo sia un problema esclusivamente americano. Ritengo che la poesia sia un antidoto naturale a tali schemi di reazione, perché ci invita a rallentare e ad ascoltare con attenzione la testimonianza di uno sconosciuto. Quando lo facciamo, qualcosa in noi si amplifica. Ricordiamo cose su chi siamo, o chi eravamo un tempo. Cominciamo a sentirci meno minacciati da ciò che è nuovo o estraneo per noi, e più generosi verso noi stessi e gli altri. Questa teoria rafforza la mia convinzione che la poesia è un bene civico. Mi rende sempre più propensa a sostenere la poesia come forma d’arte essenziale per la democrazia. Vorrei però spingermi oltre ricordando che l’attuale fascino per l’intelligenza artificiale, per la produttività e l’innovazione tecnica sembri oscurare (per molti) il valore delle attività basate sulle discipline umanistiche. Ma il coraggio, la curiosità, la resilienza, la compassione e la forza d’animo emotiva insite nella poesia sono capacità che respingono le strutture di semplificazione eccessiva e di cancellazione che minacciano di ridurci a tipologie, numeri, consumatori, ostacoli e obiettivi. La possibilità di sentire e rispondere agli effetti di una poesia ci conduce a un dialogo più completo con la ricchezza e la complessità non solo del linguaggio, ma del mondo delle persone, degli animali e dell’ambiente. È importante sottolineare che le poesie ci avvicinano anche agli articolati mondi interiori che noi stessi possediamo. C’è molto nella cultura del XXI secolo che cerca di alienarci da queste capacità. Ma sono vitali. Oserei dire che sono la linfa vitale della nostra umanità. La poesia è importante per il suo impegno a rafforzarle e difenderle.
Come si è evoluta la sua responsabilità di scrittrice e poetessa dalle prime raccolte ai lavori più recenti?
Penso che uno scrittore abbia la responsabilità di porre domande valide e di muoversi in modi creativi e ingegnosi per esplorarle. Penso che uno scrittore abbia la responsabilità di ricercare la scoperta e la rivelazione, e di andare oltre ciò che ha imparato e di spingersi oltre ciò che gli fa sentire come se stesse ricominciando da capo, imparando da zero. Tutto il resto che uno scrittore fa si basa sul temperamento, sul particolare tenore della sua immaginazione, sui suoi investimenti personali e sul grado in cui ama o detesta essere al centro dell’attenzione del discorso pubblico. Il mio personale senso di coinvolgimento mi porta a voler essere al servizio delle domande: cosa significa vivere insieme con gli altri? Cosa significa infliggere e subire danni? Che aspetto ha il perdono autentico e cosa ci chiede? L’ispirazione è qualcosa per cui possiamo impegnarci collettivamente? L’amore è un valore civico? Come possiamo realizzare tutte le speranze della Storia e come possiamo prestarci al compito colossale di ripulire il caos della Storia? Il mio lavoro consiste nel cercare nuovi approcci formali, nuovi vocabolari filosofici, nuovi quadri di riferimento e nuove forme di vulnerabilità personale con cui procedere verso queste domande, che sono di per sé un bersaglio mobile.
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