Gli atleti paralimpici non sono eroi, l'inclusione sia la norma
Il 3 dicembre è la “Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità”, ricordiamoci delle troppe barriere ancora da abbattere. (Questa rubrica compie 10 anni, diventerà un libro)

Il 3 dicembre ricorre la “Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità”, istituita dall’ONU nel 1992. È una ricorrenza importante anche per lo sport, che tanto contribuisce a trasformare (apparenti) limiti in opportunità. Lo sport, quando mantiene la sua promessa originaria, è infatti un luogo dove il corpo non è giudicato, ma ascoltato, anche se la parola “disabilità” continua a inchiodarci alla tentazione di dividere il mondo in due gruppi: chi può e chi non può. Lo sport, invece, rivela l’esatto opposto. Tutti, senza eccezione, abbiamo limiti e fragilità da attraversare, eppure la realtà ci ricorda che la distanza tra i grandi eventi e la vita quotidiana è ancora enorme. Nonostante si stia imparando a uscire dalla narrazione dell’“eroe” sportivo paralimpico (e ne sono felici per primi proprio gli sportivi paralimpici) restano clamorosi i problemi di accesso alle palestre, soprattutto quelle scolastiche: le barriere architettoniche e sensoriali restano il primo motivo di mancato accesso alla pratica sportiva per le persone con disabilità. Il secondo motivo (o forse il primo a pari merito) è quello economico, in riferimento, per esempio, al costo degli ausili necessari per fare sport. In sostanza aumentano le storie che ci commuovono, ma non le politiche che consentono a tutti di praticare sport con dignità. L’inclusione non è mai il risultato spontaneo di una buona intenzione: va costruita, finanziata e resa possibile. È una scelta politica prima che narrativa e uno dei paradossi del nostro tempo è che celebriamo il superamento del limite, ma continuiamo a sopportare barriere che lo rendono invalicabile per molti. Non basta applaudire l’eccezione straordinaria: la misura della giustizia sta nella normalità resa accessibile e le storie di chi ce l’ha fatta non possono diventare l’alibi per dimenticare chi non può ancora iniziare. La giornata del 3 dicembre non sia dunque un promemoria di compassione, ma un invito a immaginare un Paese che riconosca nello sport una grande infrastruttura di uguaglianza, dove l’inclusione non sia atto di gentilezza, ma pratica condivisa: è questo il modo per avvicinarsi al modello ideale di Fedora, una delle “Città invisibili” di Italo Calvino. Ritorno a Fedora, perché da Fedora, il 2 dicembre 2015, era partito il viaggio di questa rubrica che si intitola “Senza rete”, iniziato proprio quando la rete, quella della pallavolo, l’avevo lasciata. Sono passati dieci anni esatti. Un tempo lungo e meraviglioso che i due direttori con cui ho lavorato, Marco Tarquinio e Marco Girardo, mi hanno voluto concedere. Ogni cosa, tuttavia, ha il suo tempo e proprio in occasione di questo anniversario, ho due notizie: la prima è che “Senza rete” diventerà un libro, composto da una selezione degli, ad oggi, 476 articoli di questi dieci anni di sport e società. La seconda è che “Senza rete” terminerà il prossimo 31 dicembre. Care lettrici e lettori, ci ringrazieremo (e forse commuoveremo un po’) per questo lungo e splendido tempo alle spalle, ma ci daremo anche nuovi appuntamenti perché, in forma diversa, a partire da gennaio, rifletteremo ancora sullo sport come occasione per parlare di tanto altro, sempre sulle pagine di questo quotidiano e come sempre abbiamo fatto: insieme.
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