Galeone, che nel calcio cercava la bellezza

Allenatore e filosofo, credeva in un gioco bello e libero, dove contano idee e armonia più che risultati o percentuali. Il suo era calcio di provincia, con la dignità di un sogno letterario
November 4, 2025
Galeone, che nel calcio cercava la bellezza
Giovanni Galeone ai tempi in cui allenava l'Udinese/ ANSA
Se n’è andato di domenica, il suo giorno. Il giorno del calcio (almeno di quello che si giocava solo di domenica), il giorno degli allenatori. E se ci sono allenatori per cui vincere è l’unica cosa che conta, Giovanni Galeone apparteneva a un’altra, rara, specie: quella degli allenatori che cercano la bellezza anche a costo di perdersi. Napoletano di nascita, triestino d’adozione, Galeone era figlio di due mari e di due culture: il calore meridionale e la malinconia mitteleuropea, la passione viscerale per il pallone e il gusto per le parole che hanno respirato Svevo, Saba e Magris. Trieste lo ha accolto e probabilmente educato a un calcio che ha molto a che fare con la letteratura, dove le parole – pressing, costruzione, verticalità – contano solo se diventano racconto, se hanno dentro un’idea di mondo e definiscono un modo di starci, in quel mondo. Di sé diceva poco. Amante di Bertold Brecht e Jean-Paul Sartre la sua cultura e il suo pensiero anticonformista lo manifestava sul campo, come quando allenava il Pescara e la sua squadra sembrava uscita da un romanzo di formazione: ragazzi che non sapevano ancora di essere forti, che correvano per gusto, per fame, per amore del gioco. Galeone li guidava come un maestro d’orchestra più che come un tecnico, cercando armonia nel caos, movimento nel pensiero. «Un allenatore che inizia una partita pensando di pareggiare è un folle», diceva. Una frase che è tutta la sua vita: la dichiarazione d’indipendenza di chi non accetta il compromesso come regola. Era un uomo di sinistra, nel senso più autentico e nobile del termine: credeva nell’emancipazione attraverso la cultura, nella responsabilità collettiva, nella dignità del lavoro, anche in un campo da calcio. Aveva letto troppo per pensare che il calcio potesse essere solo risultato, e aveva vissuto troppo per non sapere che la sconfitta è a volte una forma di bellezza.
Galeone era un visionario, ma non un ingenuo. Sapeva che il sistema tende a schiacciare chi osa immaginare. Per questo molti dei suoi allievi – da Allegri a Giampaolo – lo ricordano come un profeta discreto, uno che non imponeva, ma suggeriva. Aveva capito che la vera rivoluzione, nel calcio come nella vita, non è distruggere ma costruire con un’altra logica. Allenare per lui era come tentare di scrivere una pagina nuova, cercava il calcio come si cerca un libro che non esiste ancora. E quando lo trovava, anche solo per un’azione, per una combinazione riuscita, sorrideva come chi riconosce un verso perfetto. Quel Pescara di fine anni Ottanta non aveva paura: costruiva dal basso quando «costruire» non era ancora una parola di moda, osava l’estetica della verticalità, cercava l’imprevisto. Era calcio di provincia con dentro la dignità di un sogno letterario. In un mondo che misura tutto in punti, percentuali e statistiche, Galeone resta un promemoria necessario: che l’allenatore è prima di tutto un educatore di bellezza, e che la bellezza non è mai un lusso, ma un dovere civile. Giovanni Galeone è andato via esattamente cinquant’anni dopo Pier Paolo Pasolini, con cui aveva chiacchierato di calcio. Probabilmente nessuno dei due desiderava lasciare eredi, ma semi. E come gli scrittori autentici, non cercavano lettori, ma complici: qualcuno disposto a continuare a scrivere, dopo di loro, una storia bella, anzi la più bella possibile.

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