Lavorare 13 ore al giorno è sbagliato, ma lavorare si deve
Fa discutere la riforma del Parlamento greco che allunga l'orario di lavoro su base volontaria. Il punto non sono i limiti, ma che tipo di crescita vogliamo
Caro Avvenire,
il 16 ottobre il Parlamento greco ha approvato una riforma che consente di lavorare fino a 13 ore al giorno nel settore privato. Una scelta che viene giustificata come risposta alla crisi demografica e alla necessità di crescita, ma che solleva un interrogativo che riguarda tutta l’Europa: è aumentando l’orario di lavoro che si migliora l’economia o si peggiora la vita delle persone? In Grecia si lavora già più che nel resto dell’Unione, con 1.898 ore annue per lavoratore secondo l’Ocse. Il problema non è la quantità di ore, ma la scarsa produttività legata a settori a basso valore aggiunto e pochi investimenti in innovazione. La risposta del governo rischia di trasformare la fatica in norma, senza affrontare le cause strutturali. Anche in Italia conosciamo la pressione di straordinari non riconosciuti e reperibilità continua. La tecnologia, che avrebbe dovuto liberare l’uomo dal lavoro, spesso lo ha reso più controllato e disponibile h24. Il risultato è un paradosso: si lavora di più per guadagnare meno, con meno tempo per sé e per la famiglia.
il 16 ottobre il Parlamento greco ha approvato una riforma che consente di lavorare fino a 13 ore al giorno nel settore privato. Una scelta che viene giustificata come risposta alla crisi demografica e alla necessità di crescita, ma che solleva un interrogativo che riguarda tutta l’Europa: è aumentando l’orario di lavoro che si migliora l’economia o si peggiora la vita delle persone? In Grecia si lavora già più che nel resto dell’Unione, con 1.898 ore annue per lavoratore secondo l’Ocse. Il problema non è la quantità di ore, ma la scarsa produttività legata a settori a basso valore aggiunto e pochi investimenti in innovazione. La risposta del governo rischia di trasformare la fatica in norma, senza affrontare le cause strutturali. Anche in Italia conosciamo la pressione di straordinari non riconosciuti e reperibilità continua. La tecnologia, che avrebbe dovuto liberare l’uomo dal lavoro, spesso lo ha reso più controllato e disponibile h24. Il risultato è un paradosso: si lavora di più per guadagnare meno, con meno tempo per sé e per la famiglia.
Francesco Vitale
Catania
Catania
Caro Vitale,
tredici ore di lavoro al giorno su periodi prolungati possono essere letali per chiunque, come si è visto molte volte in passato e ancora oggi accade con situazioni di criminale sfruttamento in tanti Paesi. Un bel libro di recente tradotto in Italia dello storico francese Georges Vigarello (“Storia della fatica. Dal Medioevo a oggi”, il Saggiatore) illustra quanto il carico di compiti manuali e intellettuali ha gravato sui nostri simili all’interno o all’esterno di organizzazioni economiche. Siamo biblicamente “condannati” al lavoro delle nostre braccia anche se oggi la tecnologia allevia di molto lo sforzo a cui la maggior parte di noi è chiamata. Ma il lavoro è anche compimento, fonte di soddisfazione e, ne diventiamo sempre più consapevoli mentre l’intelligenza artificiale insidia le nostre occupazioni retribuite, una necessità non solo per il sostentamento materiale bensì pure per l’equilibrio psicologico. Con questa premessa, veniamo alla legge greca che tanto ha fatto discutere. Va precisato che la norma varata dal Parlamento su iniziativa del governo di centrodestra non stabilisce un obbligo generale di lavorare fino a 13 ore al giorno, ma introduce la possibilità – per i dipendenti del settore privato, in “circostanze eccezionali” – di svolgere turni più lunghi, per un massimo di 37 giornate all’anno presso lo stesso datore di lavoro. L’esecutivo del premier Kyriakos Mītsotakīs sostiene che si tratti di un’opzione volontaria che consentirebbe, per chi lo desidera, di “accorpare” ore supplementari nello stesso impiego (anziché avere un secondo lavoro), con un aumento della retribuzione che può raggiungere il 40 per cento. Al contempo, la normativa comprende una modifica del mercato del lavoro che include l’estensione della possibilità di contratti a termine, strumenti digitali di assunzione e la facoltà – in settori a forte stagionalità – di distribuire diversamente ferie o turnazioni.
tredici ore di lavoro al giorno su periodi prolungati possono essere letali per chiunque, come si è visto molte volte in passato e ancora oggi accade con situazioni di criminale sfruttamento in tanti Paesi. Un bel libro di recente tradotto in Italia dello storico francese Georges Vigarello (“Storia della fatica. Dal Medioevo a oggi”, il Saggiatore) illustra quanto il carico di compiti manuali e intellettuali ha gravato sui nostri simili all’interno o all’esterno di organizzazioni economiche. Siamo biblicamente “condannati” al lavoro delle nostre braccia anche se oggi la tecnologia allevia di molto lo sforzo a cui la maggior parte di noi è chiamata. Ma il lavoro è anche compimento, fonte di soddisfazione e, ne diventiamo sempre più consapevoli mentre l’intelligenza artificiale insidia le nostre occupazioni retribuite, una necessità non solo per il sostentamento materiale bensì pure per l’equilibrio psicologico. Con questa premessa, veniamo alla legge greca che tanto ha fatto discutere. Va precisato che la norma varata dal Parlamento su iniziativa del governo di centrodestra non stabilisce un obbligo generale di lavorare fino a 13 ore al giorno, ma introduce la possibilità – per i dipendenti del settore privato, in “circostanze eccezionali” – di svolgere turni più lunghi, per un massimo di 37 giornate all’anno presso lo stesso datore di lavoro. L’esecutivo del premier Kyriakos Mītsotakīs sostiene che si tratti di un’opzione volontaria che consentirebbe, per chi lo desidera, di “accorpare” ore supplementari nello stesso impiego (anziché avere un secondo lavoro), con un aumento della retribuzione che può raggiungere il 40 per cento. Al contempo, la normativa comprende una modifica del mercato del lavoro che include l’estensione della possibilità di contratti a termine, strumenti digitali di assunzione e la facoltà – in settori a forte stagionalità – di distribuire diversamente ferie o turnazioni.
Ad Atene, il dibattito è stato, non c’è bisogno di dirlo, acceso e polarizzato. Le organizzazioni sindacali hanno indetto due scioperi generali in questo mese di ottobre contro il provvedimento, considerato da molti come una minaccia al regime europeo delle otto ore giornaliere e del corretto equilibrio lavoro-vita. Si è detto che la “volontarietà” sia sostanzialmente illusoria in un mercato caratterizzato da elevata precarietà, salari bassi e forte asimmetria contrattuale, soprattutto per i più giovani. Il governo ha replicato sottolineando le emergenze strutturali alle quali era necessario dare risposta: il declino demografico, la fuga di giovani all’estero, i settori come il turismo e i servizi che faticano a reperire manodopera, l’elevata presenza di lavoro sommerso. In ogni caso resta forte il timore che nella pratica le condizioni di volontarietà e protezione possano venire compromesse, specialmente in un contesto in cui le tutele per i dipendenti risultano deboli. In realtà, la vera domanda, e non nuova, non riguarda quante ore servano per assicurare crescita a una nazione, ma quale tipo di crescita vogliamo. In un’era in cui la tecnologia potrebbe restituirci tempo e libertà, restiamo ancorati all’idea di misurare l’impegno – e di immaginare il risultato – in termini di cartellino da timbrare all’inizio e alla fine di un lungo turno. Continuo a pensare che il lavoro debba occupare una porzione rilevante della nostra giornata. Credo però sia un errore non mettere dei limiti e, soprattutto, non cercare di costruire un’economia e una società equilibrate, nelle quali ciascuno sia incentivato a trovare un’occupazione confacente e degnamente retribuita, senza però sacrificare a essa tutta la sua vita.
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