Le citazioni false non vanno bene, ma a volte ci possono stare

Attribuire a un autore parole che non ha mai pronunciato consente di sfruttarne la credibilità per sostenere le proprie tesi. È un fenomeno che in rete diventa comune e contribuisce a una cultura confusa
December 12, 2025
Caro Avvenire,
ho visto pubblicata qualche giorno fa la meritoria lettera del signor Piai sulle citazioni false. Mi sembra un tema che merita qualche ulteriore considerazione. Ovvio, ci sono questioni più urgenti sia nel nostro Paese sia nel mondo, ma il degrado del dibattito pubblico passa anche da queste piccole scorciatoie. Quando parole mai dette vengono appiccicate a figure autorevoli, si costruisce un modo per darsi ragione senza fatica, sfruttando il nome altrui invece di portare elementi di sostanza. Così si alimenta una cultura un po’ di cartapesta, dove conta più l’effetto che il contenuto. E alla lunga questo logora la fiducia, rende tutto più confuso e, come risultato, abbassa il livello del confronto civile.
Alberto Bambagi
Caro Bambagi,
difficile dissentire da lei e dal signor Piai: le citazioni hanno un peso particolare nel dibattito pubblico. Non sono solo parole: evocano sapienza, snodi storici e patrimoni culturali. È questo che le rende così diffuse e, sempre più spesso, facilmente fraintese o manipolate. La prima ragione è il principio di autorità. Richiamare un filosofo, uno scienziato o uno scrittore conosciuto conferisce immediata credibilità a un’idea. Il prestigio e la notorietà sostituiscono, almeno in parte, la necessità di argomentare. Sui social questo meccanismo si amplifica: bastano poche righe attribuite alla personalità “giusta” per ottenere consenso. La seconda ragione è il desiderio di inserirsi in una tradizione. Citare significa collocare il proprio discorso in continuità con una discendenza nobile. È un modo per dichiarare che un pensiero non nasce isolato, ma si inserisce in un percorso di riflessione consolidato. A queste si aggiungono altre motivazioni. Le citazioni funzionano retoricamente: condensano un’intuizione complessa in una formula efficace, facile da ricordare e da condividere. E hanno una dimensione identitaria: scegliere certi autori – da Gandhi a Pasolini o Tolkien, da un Papa a Einstein o Gianni Agnelli – indica implicitamente un orizzonte sociale e culturale con cui ci si riconosce. Ma la citazione diventa spesso uno strumento di legittimazione impropria. Attribuire a un autore parole che non ha mai pronunciato consente di sfruttarne la credibilità per sostenere le proprie tesi. È un fenomeno non inedito ma che sui nuovi media diventa più comune e contribuisce a una cultura confusa, in cui l’autorità del passato viene piegata alle esigenze del presente. Il fenomeno delle “fake quotations” (citazioni false o errate) è così pervasivo che alcuni osservatori lo considerano un problema tanto serio quanto le classiche fake news, con effetti duraturi sul modo in cui concepiamo la cultura e l’autorità morale. Le citazioni “virali” circolano senza nessuna verifica: dopo la prima condivisione, molte persone le rilanciano convinte della loro autenticità, contribuendo a costruire una memoria collettiva deformata. Da qui l’importanza della correttezza nelle fonti. Indicare l’opera, la pagina, l’edizione, come viene suggerito, caro Bambagi, non rappresenta una pura pedanteria: costituisce una forma di onestà verso il lettore, gli autori e la stessa qualità della discussione. Citare bene qualche volta può appesantire e rendere meno fluente e icastico il discorso, tuttavia fa più solido, trasparente e affidabile il pensiero espresso. A mio avviso, però, non tutto il male viene per nuocere, ricorrendo qui a un adagio senza padre, espressione della “saggezza popolare”. La celebre frase “Non sono d’accordo con te, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo” (o versioni simili) viene comunemente attribuita a Voltaire, sebbene non appaia in nessuna sua opera. Fu probabilmente coniata nel 1907 dalla scrittrice britannica Evelyn Beatrice Hall, in un’opera dedicata al pensatore illuminista. Ebbene, questo mi pare un concetto quasi sempre difendibile e nobile, nello spirito del liberalismo moderno, chiunque l’abbia detto. E ribadirlo anche con imprecisa attribuzione, in un momento come questo, mi sembra un servizio alla convivenza tollerante e inclusiva. Anche una citazione apocrifa qualche volta aiuta.

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