Sosteniamo l'idea del sapere, e la scuola sarà sempre bellissima
Dove c'è passione educativa, competenza, e una comunità che vive la scuola con la preoccupazione che merita, arrivano risultati in termini di preparazione professionale e crescita umana

Caro Avvenire,
in vista delle iscrizioni al prossimo anno scolastico si svolgono in queste settimane nelle scuole gli open day per pubblicizzare offerta formativa, spazi, dotazioni. Oggi la scuola è contaminata dal paradigma capitalistico-aziendalistico e dal suo lessico; si parla di PTOF («Piano triennale dell’offerta formativa»), di «dirigenti» e «utenti», sempre meno di «presidi» e «studenti». E così via. Ma la scuola è solo fabbrica di progetti, abilità e competenze o anzitutto palestra di vocazioni, desideri e futuro? «Una persona non è un «profilo di competenze», non si riduce a un algoritmo previsibile, ma un volto, una storia, una vocazione», ammonisce Leone XIV.
Vito Melia
in vista delle iscrizioni al prossimo anno scolastico si svolgono in queste settimane nelle scuole gli open day per pubblicizzare offerta formativa, spazi, dotazioni. Oggi la scuola è contaminata dal paradigma capitalistico-aziendalistico e dal suo lessico; si parla di PTOF («Piano triennale dell’offerta formativa»), di «dirigenti» e «utenti», sempre meno di «presidi» e «studenti». E così via. Ma la scuola è solo fabbrica di progetti, abilità e competenze o anzitutto palestra di vocazioni, desideri e futuro? «Una persona non è un «profilo di competenze», non si riduce a un algoritmo previsibile, ma un volto, una storia, una vocazione», ammonisce Leone XIV.
Vito Melia
Caro Melia,
apprezzo il tono accorato della sua lettera, perché condivido una preoccupazione per la scuola italiana, intendendo qui per preoccupazione una forma emotiva dell’attenzione e della responsabilità che si prova verso ciò che ha valore. Come ho già avuto modo di esprimere nelle scorse settimane, penso che non dovremmo essere troppo negativamente critici verso il nostro sistema di istruzione, bensì proattivamente orientati a suggerire e mettere in atto aggiustamenti o miglioramenti. Non si considera abbastanza che la scuola, da quella d’infanzia alla secondaria superiore, tocca direttamente una fetta enorme della popolazione, intorno a un terzo del Paese se sommiamo studenti, insegnanti, genitori e personale amministrativo: a spanne 18 milioni di persone. Qualche termine tecnico o qualche anglicismo come «open day», del quale manca un efficace corrispettivo italiano, non stravolge il volto degli istituti e delle relazioni insegnanti-giovani-famiglie. Si tratta piuttosto di comprendere che dalle classi e da ciò che viene insegnato passa letteralmente e semplicemente il nostro futuro. Ma non in isolamento. Mi ha colpito in questi giorni il racconto dei migliori licei d’Italia che tanti media hanno meritoriamente offerto in seguito alla pubblicazione delle graduatorie di Eduscopio. Ovviamente, queste classifiche non misurano tutte le variabili importanti su cui vorremmo giudicare una specifica comunità di studio, tuttavia colgono aspetti importanti ed è utile capire le caratteristiche di chi eccelle. Il punto è che nessuno, per quanto abbia potuto leggere, si soffermava sul contesto in cui è inserito l’istituto analizzato. Certo, sono bravi e appassionati i professori, il preside si dimostra brillante e dinamico, ci sono fondi per iniziative extracurricolari, e così via. Esiste però una società locale intorno alla scuola. Genitori che non contestano voti e iniziative, ragazzi che hanno fatto un percorso sereno in cui apprendere alcune regole di base, una cultura diffusa che ancora sostiene l’idea dello studio come risorsa e fattore di crescita. Un’amministrazione locale che crea condizioni generali favorevoli…
apprezzo il tono accorato della sua lettera, perché condivido una preoccupazione per la scuola italiana, intendendo qui per preoccupazione una forma emotiva dell’attenzione e della responsabilità che si prova verso ciò che ha valore. Come ho già avuto modo di esprimere nelle scorse settimane, penso che non dovremmo essere troppo negativamente critici verso il nostro sistema di istruzione, bensì proattivamente orientati a suggerire e mettere in atto aggiustamenti o miglioramenti. Non si considera abbastanza che la scuola, da quella d’infanzia alla secondaria superiore, tocca direttamente una fetta enorme della popolazione, intorno a un terzo del Paese se sommiamo studenti, insegnanti, genitori e personale amministrativo: a spanne 18 milioni di persone. Qualche termine tecnico o qualche anglicismo come «open day», del quale manca un efficace corrispettivo italiano, non stravolge il volto degli istituti e delle relazioni insegnanti-giovani-famiglie. Si tratta piuttosto di comprendere che dalle classi e da ciò che viene insegnato passa letteralmente e semplicemente il nostro futuro. Ma non in isolamento. Mi ha colpito in questi giorni il racconto dei migliori licei d’Italia che tanti media hanno meritoriamente offerto in seguito alla pubblicazione delle graduatorie di Eduscopio. Ovviamente, queste classifiche non misurano tutte le variabili importanti su cui vorremmo giudicare una specifica comunità di studio, tuttavia colgono aspetti importanti ed è utile capire le caratteristiche di chi eccelle. Il punto è che nessuno, per quanto abbia potuto leggere, si soffermava sul contesto in cui è inserito l’istituto analizzato. Certo, sono bravi e appassionati i professori, il preside si dimostra brillante e dinamico, ci sono fondi per iniziative extracurricolari, e così via. Esiste però una società locale intorno alla scuola. Genitori che non contestano voti e iniziative, ragazzi che hanno fatto un percorso sereno in cui apprendere alcune regole di base, una cultura diffusa che ancora sostiene l’idea dello studio come risorsa e fattore di crescita. Un’amministrazione locale che crea condizioni generali favorevoli…
Insomma, la scuola, caro Melia, è palestra di «vocazioni, desideri e futuro» come lei scrive, e non sarà qualche cambiamento burocratico a spegnere questo fuoco, posto che la fiamma sia ancora viva e ardente. Solo per fare un esempio, il consueto ritratto annuale del Paese che il Censis ha da poco diffuso indica un drastico calo nell’acquisto di libri e nei consumi culturali. E ci restituisce un curioso – e inedito – spaccato di concittadini impegnati assiduamente (ma sarà vero?) in altre attività relazionali-ricreative, che tuttavia non hanno impatto sui tassi di natalità. O sosteniamo complessivamente l’idea che la conoscenza, il pensiero critico, la fatica di imparare qualcosa di nuovo e non superficiale, la capacità di muoversi efficacemente in ambienti sempre più complessi siano obiettivi prioritari per le persone e per il Paese nel suo complesso, oppure qualsiasi modello di scuola sarà condannato a diventare per molti (attenzione, non per tutti) una parentesi obbligata che lascia poche tracce positive nel proprio percorso esistenziale. L’eccellenza manifestata da numerosi istituti paritari cattolici nella succitata ricerca Eduscopio sembra confermarci in questa convinzione. Laddove vi è passione educativa, competenza ma anche una comunità che vive la scuola con la preoccupazione che essa merita, arrivano risultati in termini di preparazione professionale e di crescita umana. Sebbene avesse ragione, si fa fatica a dire, come proponeva il ministro Tommaso Padoa-Schioppa, che «le tasse sono una cosa bellissima» quando servono a finanziare servizi fondamentali. Dire che la «scuola è bellissima» risulta forse più facile. Ma dovremmo farlo più spesso. E con più convinzione.
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