«Il maschio è cacciatore»? Scienza ed educazione oltre i luoghi comuni
L’educazione non è un inutile tentativo: rimane il principale strumento di regolazione degli esiti della nostra biologia. Perché la violenza non è nei geni

Caro Avvenire,
le recenti dichiarazioni del Ministro della Giustizia Carlo Nordio secondo cui il “dominio maschile” sarebbe radicato nel Dna, e della Ministra delle Pari opportunità Eugenia Roccella, che minimizza il ruolo dell’educazione scolastica nella prevenzione della violenza di genere, meritano una riflessione pubblica ulteriore. Attribuire la disparità di potere tra uomini e donne a una presunta determinazione biologica significa ignorare decenni di studi antropologici, sociologici e giuridici che dimostrano come le disuguaglianze siano frutto di costruzioni culturali e istituzionali, non di destino naturale. Se la violenza maschile fosse inscritta nei geni, allora nessun intervento educativo, legislativo o sociale avrebbe senso. Soprattutto, non si spiegherebbero le enormi differenze nei tassi di violenza tra Paesi, epoche e contesti sociali. Allo stesso modo, affermare che l’educazione “non serve” significa contraddire ciò che la scuola italiana e gli organismi internazionali affermano da anni: il cambiamento culturale è un tassello indispensabile per prevenire la violenza di genere. L’educazione al rispetto, all’affettività e alla parità non sostituisce certo gli interventi penali o l’assistenza alle vittime, ma li integra e ne rafforza l’efficacia. Negare questo ruolo significa abbandonare uno degli strumenti più preziosi che abbiamo per agire prima che la violenza avvenga. È ora che il dibattito pubblico si affidi alle evidenze e non alle suggestioni.
le recenti dichiarazioni del Ministro della Giustizia Carlo Nordio secondo cui il “dominio maschile” sarebbe radicato nel Dna, e della Ministra delle Pari opportunità Eugenia Roccella, che minimizza il ruolo dell’educazione scolastica nella prevenzione della violenza di genere, meritano una riflessione pubblica ulteriore. Attribuire la disparità di potere tra uomini e donne a una presunta determinazione biologica significa ignorare decenni di studi antropologici, sociologici e giuridici che dimostrano come le disuguaglianze siano frutto di costruzioni culturali e istituzionali, non di destino naturale. Se la violenza maschile fosse inscritta nei geni, allora nessun intervento educativo, legislativo o sociale avrebbe senso. Soprattutto, non si spiegherebbero le enormi differenze nei tassi di violenza tra Paesi, epoche e contesti sociali. Allo stesso modo, affermare che l’educazione “non serve” significa contraddire ciò che la scuola italiana e gli organismi internazionali affermano da anni: il cambiamento culturale è un tassello indispensabile per prevenire la violenza di genere. L’educazione al rispetto, all’affettività e alla parità non sostituisce certo gli interventi penali o l’assistenza alle vittime, ma li integra e ne rafforza l’efficacia. Negare questo ruolo significa abbandonare uno degli strumenti più preziosi che abbiamo per agire prima che la violenza avvenga. È ora che il dibattito pubblico si affidi alle evidenze e non alle suggestioni.
Monica Cocconi
professoressa associata di diritto amministrativo presso l’Università di Parma
professoressa associata di diritto amministrativo presso l’Università di Parma
Cara professoressa Cocconi,
le controverse dichiarazioni dei ministri Nordio e Roccella che lei commenta rimandano a un dibattito scientifico con rilevanti ricadute politiche non nuovo e mai del tutto risolto: quanto siamo “plasmabili” dalla cultura? E quanto invece siamo vincolati da predisposizioni innate? Questa discussione ha una storia lunga e complessa. Negli Stati Uniti, negli scorsi decenni, ha assunto la forma di un scontro ideologico tra la sinistra culturale, che difendeva l’idea di blank slate (la mente come tabula rasa) sottolineando la forza della conoscenza, dell’educazione, della socializzazione nel modellare i comportamenti, e la destra culturale (con parte degli scienziati evoluzionisti), che rivendicava invece l’esistenza di tendenze inconsce, bias cognitivi e spinte comportamentali radicate nella lunga storia della nostra specie (si veda, in proposito, il libro di Steven Pinker, Tabula rasa. Perché non è vero che gli uomini nascono tutti uguali). La verità, come spesso accade, sta in un equilibrio più complesso: biologia e cultura interagiscono in modo dinamico, senza che nessuna delle due possa spiegare da sola fenomeni sociali come la violenza o la disparità di potere tra i sessi. Attribuire tali comportamenti a un presunto “DNA del dominio” significa misconoscere, come lei giustamente rileva, gentile professoressa Cocconi, l’enorme variabilità storica e culturale del comportamento umano e insieme ignorare che molte società hanno livelli bassissimi di violenza maschile, e altre altissimi, sulla base di una confusione tra predisposizioni generiche e comportamenti specifici. La biologia può spiegare tendenze statistiche, ma non determina le scelte a livello individuale. All’estremo opposto, la concezione per cui l’essere umano sia totalmente educabile e ogni suo atto sia frutto solo di cultura o convincimento appare parimenti insostenibile. Esistono scorciatoie cognitive universali che possono metterci fuori strada, strutture emotive condivise che ci condizionano, inclinazioni spontanee a cooperazione, chiusura in gruppi, aggressività; e non si può trascurare che uomini e donne abbiano profili endocrini diversi che possono agire come motivatori in talune circostanze. Da tutto questo trarre la conclusione che – mi si perdoni l’espressione – “l’uomo è cacciatore” in senso sessuale costituisce un errore scientifico e una pericolosa giustificazione di comportamenti inaccettabili dal punto di vista morale e legale. In questo senso, l’educazione non è un inutile tentativo: rimane il principale strumento di regolazione degli esiti della nostra biologia. C’è infatti un pericolo che torna ciclicamente: usare spiegazioni evoluzionistiche per naturalizzare e normalizzare l’esistente. È successo con il razzismo “scientifico” dell’Ottocento e del Novecento (che ha prodotto i peggiori, recenti crimini di massa) e i tentativi ancor oggi in voga di giustificare diseguaglianze economiche come “naturali” (presunte etnie meno “intelligenti” o “laboriose”). Questo modo di procedere confonde fatalmente “ciò che è” con “ciò che deve essere”. Un tratto evolutivo non risulta di per sé desiderabile eticamente. In definitiva, negare la natura umana è una forzatura ideologica, ma la violenza e la sopraffazione sistematica non stanno nei geni, piuttosto nei contesti, nei modelli culturali, nelle strutture sociali che possiamo – e spesso dobbiamo – cambiare sulla base di valori e principi condivisi. La politica ha anche questa responsabilità. Speriamo che qualche commento non meditato possa venire superato da scelte di lungo periodo allineate alla migliore scienza e al massimo rispetto della dignità di ciascuna cittadina e di ciascun cittadino.
le controverse dichiarazioni dei ministri Nordio e Roccella che lei commenta rimandano a un dibattito scientifico con rilevanti ricadute politiche non nuovo e mai del tutto risolto: quanto siamo “plasmabili” dalla cultura? E quanto invece siamo vincolati da predisposizioni innate? Questa discussione ha una storia lunga e complessa. Negli Stati Uniti, negli scorsi decenni, ha assunto la forma di un scontro ideologico tra la sinistra culturale, che difendeva l’idea di blank slate (la mente come tabula rasa) sottolineando la forza della conoscenza, dell’educazione, della socializzazione nel modellare i comportamenti, e la destra culturale (con parte degli scienziati evoluzionisti), che rivendicava invece l’esistenza di tendenze inconsce, bias cognitivi e spinte comportamentali radicate nella lunga storia della nostra specie (si veda, in proposito, il libro di Steven Pinker, Tabula rasa. Perché non è vero che gli uomini nascono tutti uguali). La verità, come spesso accade, sta in un equilibrio più complesso: biologia e cultura interagiscono in modo dinamico, senza che nessuna delle due possa spiegare da sola fenomeni sociali come la violenza o la disparità di potere tra i sessi. Attribuire tali comportamenti a un presunto “DNA del dominio” significa misconoscere, come lei giustamente rileva, gentile professoressa Cocconi, l’enorme variabilità storica e culturale del comportamento umano e insieme ignorare che molte società hanno livelli bassissimi di violenza maschile, e altre altissimi, sulla base di una confusione tra predisposizioni generiche e comportamenti specifici. La biologia può spiegare tendenze statistiche, ma non determina le scelte a livello individuale. All’estremo opposto, la concezione per cui l’essere umano sia totalmente educabile e ogni suo atto sia frutto solo di cultura o convincimento appare parimenti insostenibile. Esistono scorciatoie cognitive universali che possono metterci fuori strada, strutture emotive condivise che ci condizionano, inclinazioni spontanee a cooperazione, chiusura in gruppi, aggressività; e non si può trascurare che uomini e donne abbiano profili endocrini diversi che possono agire come motivatori in talune circostanze. Da tutto questo trarre la conclusione che – mi si perdoni l’espressione – “l’uomo è cacciatore” in senso sessuale costituisce un errore scientifico e una pericolosa giustificazione di comportamenti inaccettabili dal punto di vista morale e legale. In questo senso, l’educazione non è un inutile tentativo: rimane il principale strumento di regolazione degli esiti della nostra biologia. C’è infatti un pericolo che torna ciclicamente: usare spiegazioni evoluzionistiche per naturalizzare e normalizzare l’esistente. È successo con il razzismo “scientifico” dell’Ottocento e del Novecento (che ha prodotto i peggiori, recenti crimini di massa) e i tentativi ancor oggi in voga di giustificare diseguaglianze economiche come “naturali” (presunte etnie meno “intelligenti” o “laboriose”). Questo modo di procedere confonde fatalmente “ciò che è” con “ciò che deve essere”. Un tratto evolutivo non risulta di per sé desiderabile eticamente. In definitiva, negare la natura umana è una forzatura ideologica, ma la violenza e la sopraffazione sistematica non stanno nei geni, piuttosto nei contesti, nei modelli culturali, nelle strutture sociali che possiamo – e spesso dobbiamo – cambiare sulla base di valori e principi condivisi. La politica ha anche questa responsabilità. Speriamo che qualche commento non meditato possa venire superato da scelte di lungo periodo allineate alla migliore scienza e al massimo rispetto della dignità di ciascuna cittadina e di ciascun cittadino.
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