Difendiamo i giornalisti dalle bombe e dall'indifferenza
Il rischio maggiore che corriamo oggi non è solo la delegittimazione dei reporter coraggiosi ma anche la convinzione di non avere bisogno di “cani da guardia” della democrazia
Caro Avvenire,
apprendo con sgomento dell’attentato che ha distrutto le auto del giornalista Sigfrido Ranucci e di sua figlia. Un gesto vile, che poteva trasformarsi in tragedia, e che colpisce non solo un uomo, ma la libertà di stampa, il diritto di informare e il coraggio di chi non piega la schiena di fronte ai poteri forti. Non è solo un ordigno esploso davanti alla casa di Ranucci: è una bomba piazzata sotto la democrazia, sotto il diritto dei cittadini di sapere. Chi mette a tacere un giornalista con l’esplosivo, mette paura a tutti noi. Sono indignato perché da anni si alimenta un clima ostile verso chi fa domande scomode, si delegittima il giornalismo d’inchiesta, si tenta di ridicolizzare chi cerca la verità.
Francesco Vitale, Catania
Caro Vitale,
l’attentato intimidatorio a Sigfrido Ranucci ha suscitato una risposta corale e univoca, che per una volta rassicura e conforta di fronte all’improntitudine dei nemici della legalità e della trasparenza. Come hanno già benissimo scritto su Avvenire Danilo Paolini, Marco Ferrando e Massimiliano Castellani, tutelare la libertà di informazione è tutelare la democrazia. Ma proviamo a proiettarci un po’ più in avanti, per continuare a garantire quel bene fondamentale che è lo scrutinio professionale e indipendente delle attività dei soggetti che incidono sulla vita pubblica e civile. Questa è l’essenza del giornalismo investigativo, ed è bene ribadire che la sua limitazione non deriva solo dalle reazioni violente di chi non tollera la dialettica della società aperta. Noi di Avvenire sappiamo bene che cosa significa: l’inviato Nello Scavo è da tempo nel mirino delle gang di trafficanti libici e per questo gli sono state assegnate misure di protezione da parte delle forze dell’ordine. Il sostegno di una testata solida con ampia visibilità consente di fare i conti con tale situazione e permette a Scavo di proseguire il suo lavoro, senza limitazioni se non, purtroppo, nella sua vita personale e familiare.
Vediamo quindi, caro Vitale, l’aspetto spesso meno considerato di scenari di questo tipo. Una scorta e la visibilità possono salvare gli operatori dei media più grandi e noti. Quando, d’altra parte, il contesto si fa locale, l’intimidazione spesso ha buon gioco nel mettere il giornalista in condizioni di non riuscire a svolgere compiutamente il proprio lavoro. Si dice, inoltre, che il discredito, la diffamazione, l’isolamento facciano il resto. Tuttavia, il rischio maggiore che corriamo oggi non è la delegittimazione dei reporter coraggiosi, è invece la progressiva indifferenza nei loro confronti, la convinzione di non avere bisogno di “cani da guardia” della democrazia in un ambiente digitale dove ogni informazione ci sembra, erroneamente, libera, disponibile e accessibile.
Una cultura diffusa che ha sepolto i quotidiani come relitto del passato pre-digitale, privilegia la brevità superficiale dei social media e crede a tutto senza filtri critici, finendo con il non credere più a niente, crea cittadini indifferenti al buon giornalismo. Chi è disposto a pagare per un prodotto mediatico confezionato con competenza, profondità e oggettività? Senza ricavi, però, non si pagano professionisti ben formati e dotati di mezzi adeguati. E così si spengono tante voci essenziali. Alla radice, quindi, per dare garanzie ai Ranucci, agli Scavo e a tanti meno conosciuti valorosi operatori dei media finiti nel mirino di mafie e di potenti insofferenti al controllo e alla critica legittimi e motivati, dobbiamo alimentare la pianta del buon giornalismo con strumenti nuovi, anche attraverso investimenti pubblici, proprio perché il buon funzionamento della società e degli apparati statali dipende anche dalla presenza di un giornalismo attivo e autonomo, che lavora a favore di tutti senza guardare in faccia a nessuno.
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