Josefina dà un futuro alle domestiche-schiave del Perù
Storie di donne che fanno la differenza
Immaginatela, una piccola Josefina, ignara di tutto, vissuta fino ad allora in un villaggio in mezzo alle Ande peruviane, senza documenti, senza scuola, senza più padre. Immaginatela fare un fagotto dei suoi vestiti e partire per Lima, la grande città lontana più di mille chilometri, dove nessuno sa nulla di lei e lei non capisce cosa i suoi padroni le dicono perché conosce solo il quechua. E non sarà solo lavoro domestico, come pensava nei suoi 8 anni: saranno umiliazioni, botte e molestie, cambiamenti di casa e di padroni. Accade a molte trabajadoras del hogar, emigrate bambine dalle loro comunità sperdute per perdersi nelle città dove sono mandate a servizio.

A Josefina Condori è successo poco più di 50 anni fa, e ancora l’addolora pensare alla sua infanzia mancata, a fare la serva nelle case altrui, malmenata e maltrattata, senza affetti né considerazione. Ma poi un giorno Josefina ha incontrato una signora italiana che per amore dell’umanità ferita si era trasferita in Perù: era Vittoria Savio e aveva creato una casa famiglia per le schiave-bambine, “Yanapanakusun” (Aiutiamoci in lingua quechua). Josefina è stata una delle sue prime collaboratrici. Vittoria è morta un anno fa e la sua storia è raccontata nel libro “Donne dell’altro mondo” di Antonella Barina (Manni 2025, 18 euro) che sarà presentato domenica a Bookcity a Milano (Fondazione San Fedele, piazza San Fedele, ore 17). Josefina Condori parla con Avvenire in una tappa del suo viaggio verso l’Italia, dove arriva con l’ex braccio destro di Vittoria, Ronald Zàrate Herrera per partecipare all’incontro; ha 60 anni e è la presidente dell’opera fondata da Vittoria Savio: un rifugio sicuro, una casa-famiglia a Cusco, mille chilometri da Lima, dove sono ospitate per brevi periodi dalle 20 alle 40 giovanissime trabajadoras del hogar che qui ricevono ospitalità, supporto psicologico, possibilità di studiare e di andare alla ricerca delle proprie famiglie. «Rispetto a qualche anno fa le bambine sono più grandi, e più consapevoli di quello che incontreranno andando nelle città», racconta Josefina. Il fenomeno delle schiave domestiche non è scomparso: si calcola che in Perù siano coinvolte ancora 100mila bambine e ragazze. Il dolore più grande, oltre ai maltrattamenti e agli abusi, è la perdita della propria identità: semplicemente scompaiono, prive di documenti e di legami, troppo povere loro e le famiglie per conservare una relazione a distanza. Come fa Josefina, dopo tanti anni trascorsi a sentire su di sé il dolore delle lavoratrici domestiche sfruttate, e restare nonostante tutto in piedi? «Sopporto perché ho conosciuto la stessa sofferenza e piango con ciascuna l’infanzia perduta, la mia e la loro. Però ho incontrato sulla mia strada persone come Vittoria che mi hanno aiutata. Loro hanno me. Ho imparato che non basta lamentarsi, ma bisogna respirare a fondo e continuare a lavorare per un mondo migliore».
Il centro Yanapanakusun è sostenuto da Terre des Hommes e attua una forma di autofinanziamento con alcuni spazi dedicati al turismo responsabile; collegate ad esso sono una decina di Case di cultura sparse nei villaggi andini anche a tre ore di viaggio da Cusco, dove si svolgono attività di animazione, di scolarizzazione, di prevenzione dell’emigrazione forzata rivolte alle ragazze. Anche dopo tanti anni, a Josefina, vengono le lacrime agli occhi quando racconta ad Avvenire la storia di Dionisia. «Aveva 13 anni quando è arrivata nella casa; il padrone l’aveva picchiata, era malridotta. Vittoria mi disse: tutto quello che le è stato tolto della sua infanzia noi non possiamo restituirglielo, ma possiamo aiutarla. Quella bambina aveva cambiato casa molte volte, le famiglie se la passavano da una all’altra, come un gatto, o una schiava. Da noi si è ripresa, ha frequentato una scuola serale. Sono riuscita a trovare un contatto con la sua famiglia, abbiamo fatto due giorni di cammino sulle Ande per incontrare uno zio. Era contenta, finalmente apparteneva a qualcuno, era parte di qualcosa». Josefina nel suo viaggio verso Milano ha fatto tappa in Germania per salutare due sue ex ospiti del centro di accoglienza. «La migliore ricompensa al mio lavoro è vederle cambiate, da piccoline maltrattate sono diventate donne, e sono felici. Questo mi rende più forte».

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