Il rimpianto di papà Fuser e il primo canestro per "Koeman"
Storie di sport: un campione del calcio che piange suo figlio e un figlio che segue la scia paterna su un campo di basket

Il calcio, lo sport in generale, è fatto di storie umane che non possono passare in secondo piano, specie se soppiantate dalle fredde e inutili statistiche o peggio ancora dalle polemiche futili che finiscono per diventare palle avvelenate, scagliate contro le coscienze di chi ha ancora a cuore il senso del gioco. E allora questa settimana di storie umane che fanno ancora bene al cuore, e quindi al calcio e poi anche al basket, ne ho trovate due. Due vicende umane che meritano di essere raccontate per poi rifletterci sopra almeno il tempo di un caffè. Due storie che hanno in comune “l’amore che tutto vince”. L’amore di un padre per un figlio che non c’è più, ma che è sempre presente nella sua vita, e l'amore di un figlio che ha perso il proprio padre e l’ha voluto ricordare a modo suo. Cominciamo dalla storia del padre che ha perso il figlio. Giorni fa al Teatro Regio, guidati da un cicerone d’eccezione e affabulatorio come il direttore marketing e relazioni esterne Dario Montrone, trovo tra i visitatori alcune "legends" del Parma di Nevio Scala (presentissimo anche lui e attento in quella visita guidata): il “sindaco” Osio, il fantasista Pizzi e poi lui, quel papà amorevole: Diego Fuser. Tutti volti conosciuti e intervistati nelle varie fasi della loro e della mia carriera. Con Fuser però ci siamo guardati un istante, ma non mi ha riconosciuto. Un solo incontro del resto c'era stato tra noi, a Costigliole d'Asti, anni fa quando ancora giocava nei dilettanti del Canelli e alla domenica dava spettacolo con quel cavallo pazzo poderoso di Gigi Lentini (leggere la sua biografia, scritta da Michele Tossani: Gigi Lentini. Il talento del Filadelfia - Edizioni Incontropiede -). Quel giorno a Costigliole, ci aveva fatto incontrare il suo padre spirituale, don Aldo Rabino, lo storico cappellano del Toro che seguiva Diego dai tempi delle giovanili granata dove da ragazzino, nato nella vicina e regale Venaria, era riuscito ad entrare nella nidiata fortunata dei ragazzi del Filadelfia del maestro assoluto, il più grande forgiatore di talenti, Sergio Vatta. Lì dove aveva cominciato, al Torino, dopo essere passato al Milan, Fiorentina, Lazio, Parma e Roma e dopo oltre 400 presenze in Serie A, ha chiuso con il professionismo nel 2004. Un fine corsa anticipato quello di Fuser, con un rimpianto, che mi colpì allora e che mi tocca ancora a distanza di vent’anni dopo che lo ha ribadito nei giorni scorsi alla Gazzetta dello Sport. «Avrei potuto continuare a giocare in Serie A fino a dopo i 40 anni, come Paolo Maldini, ma se ho smesso l'ho fatto per una sola ragione: mio figlio Matteo». Quella era la prima volta che Fuser decise di aprire il suo cuore "ferito" di padre che nel settembre del 2011 aveva perso quel figlio 15enne. Lo fece con noi di Avvenire grazie alla mediazione di don Aldo. «Non passa giorno Don – disse rivolgendosi a don Rabino - che il pensiero non vada al nostro Matteo. Le abbiamo tentate tutte, girato gli ospedali di mezzo mondo per cercare una soluzione, ma non c'è stato niente da fare». Matteo soffriva di una grave forma di epilessia e Diego sperava che si potesse combattere con la stessa facilità di corsa e di andare in gol che possedeva quel ragazzo "cuore Toro". A 19 anni Gigi Radice lo fece esordire in Serie A e la sua prima doppietta la segnò alla Roma. E a Roma era nato anche Matteo. «Mi ero trasferito dal Milan (che lo aveva acquistato per 7 miliardi di vecchie lire dal Torino) alla Lazio. Con Orietta eravamo felicissimi, ci sentivamo i ragazzi più fortunati del mondo. Soldi, la casa in una città fantastica e, poi, quel figlio in arrivo. Ma dopo sei mesi dalla nascita i medici ci dissero chiaro e tondo che sconfiggere quella malattia sarebbe stato impossibile. Noi non ci credevamo, pensavamo: ma come, Matteo è un bambino così bello. E, invece, poi la sua sofferenza quotidiana è stata la nostra, ogni istante che ha vissuto... Adesso che non c'è più mi rendo conto di quanto un uomo sia piccolo e impotente davanti alla morte di un figlio». Per resistere, Diego si è aggrappato a Orietta, «la moglie di un calciatore più bella e più forte che abbia mai conosciuto», sottolineava don Aldo che li aveva sposati e che di Fuser ricordava ogni singola partita, a cominciare da quella del debutto all'Olimpico. «Alla Roma caro Diego segnasti grazie agli assist di Alvise Zago, ma soprattutto dopo quelle due "carezze" alla statua di San Pietro quando il giorno prima mi avevi seguito in Vaticano», raccontava divertito il sacerdote. Quel giorno parlammo del lavoro duro con Sacchi, di Zoff ct che non lo convocava in Nazionale e di Zeman che Fuser disse: «il Boemo è stato l'allenatore più simpatico e intelligente che ho avuto. Quando Matteo se ne è andato il primo messaggio è stato il suo». Fuser non dimentica neanche un volto e un nome del suo percorso, a cominciare dagli amici portieri: «Marchegiani intelligente e normale, l'opposto di Buffon che ho conosciuto nella versione folle e geniale di Parma». Geniale anche il Roberto Mancini della Lazio con il quale ruppe: «Ci litigai perché offendeva i compagni a ogni minimo errore, ma sono stato l'unico a cantargliele». Nella sua Roma è quello che pensavano tutti dell'«ingestibile» Antonio Cassano. «E infatti con un briciolo di testa in più Antonio avrebbe fatto cose ancora più grandi. Il suo talento all'epoca era superiore anche a quello di Totti e questo dava fastidio... Ma fuori Cassano era un disastro, uno capace di "bocciarmi" la macchina al parcheggio di Trigoria e invece di chiedere scusa mi fa: "Io guadagno un milione al minuto, se vuoi te ne ricompro dieci di queste macchine qua"... Spero che sia migliorato». Chi sta provando a migliorare, senza farcela ancora, era Paul Gascoigne: «Povero "Gazza", quante risate con lui alla Lazio. L'alcol lo ha rovinato. Ricordo che andava nel bagno dello spogliatoio si metteva due dita in gola per rimettere e cinque minuti dopo, pallido come un cencio, te lo ritrovavi in mezzo al campo che non sbagliava un lancio». Storie di cuoio degli anni '90, forse l'ultimo capitolo di un calcio ancora romantico, così come è romanticamente struggente una storia di basket di periferia, anche questa letta sulla Gazzetta dello Sport (ne La sveglia di Luigi Garlando che a sua volta l’ha raccolta dal blog cestistico La giornata tipo) che ha per protagonista quel figlio di cui sopra. Liam è il suo nome, e lui ricorda un padre che non ha mai conosciuto. Il suo papà era il “Koeman” dei canestri. Il “Rambo” del calcio olandese, il castigatore della Samp di Mancini e Vialli nella finale di Coppa dei Campioni del 1992 contro il suo Barcellona, Ronald Koeman, stranamente era diventato il nome di battaglia di Alessio Allegri, cecchino dell’Osl Garbagnate (Milano), stroncato in campo a 37 anni da una “aritmia letale”. Liam, quel fatale 16 dicembre del 2019, era nel grembo della madre Claudia che aveva assistito alla scena drammatica degli ultimi strazianti attimi di vita di suo marito Alessio. E in quel palazzetto dove si era consumata la tragedia di Alessio, 5 anni e mezzo dopo un altro “Koeman” è tornato. Lo ha fatto attraverso suo figlio Liam, maglia numero "6" con sulle spalle la scritta che ricorda quel papà di cui ha sentito parlare dalla mamma e dagli amici del basket. E’ un vuoto enorme quello di Liam che si può provare a riempire con i ricordi degli altri. E’ un peso, come quel pallone a spicchi da tirare fin lassù al canestro, che adesso per un bambino qual è sembra distante quanto la luna. Ma lassù in Cielo però c’è un angelo, papà Alessio che se ne stava a guardare divertito e curioso nel momento in cui Liam, “Koeman jr”, ha segnato il primo canestro della sua vita. Sua mamma Claudia finalmente ha potuto piangere, ma di gioia e con lei tutte le persone che in questi anni hanno avuto il sostegno dell’Associazione Koeman Allegri che sostiene la ricerca delle patologie cardiache. E già solo a raccontarle certe storie fanno davvero bene, anche al cuore.
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