Basta giocare con la memoria di Bergamini: chiediamo giustizia per Denis
Assurdo: c'è ancora chi parla di suicidio del calciatore del Cosenza che venne assassinato nel novembre del 1989

Vorrei parlare del mio calcio libero. Di piccoli eroi esemplari dello sport, come Giacinto “Magno” Facchetti a cui Ita ha intitolato l’Airbus con cui papa Leone XIV ha compiuto il suo primo volo da Pontefice per il viaggio in Turchia. Vorrei raccontare storie di piccoli e grandi campioni del calcio scevri da ogni ombra e tanto meno non colpiti dal dramma, che quello poco avrebbe a che fare con la storia di un calciatore. E invece devo tornare a difendere la memoria di Denis Bergamini, il centrocampista del Cosenza assassinato e non suicidato (il 18 novembre 1989 lungo la statale 106 a Roseto Capo Spulico) come per anni si è voluto far credere. A distanza di 36 anni dalla sua tragica fine la sua memoria viene continuamente e ingiustamente profanata. L’ultima profanazione, non trovo altro termine, arriva dalla giornalista del Fatto Quotidiano Selvaggia Lucarelli, che il 18 novembre, in occasione del 36° anniversario della morte di Bergamini è uscita con un podcast, realizzato in collaborazione con Marco Cribari, dal titolo quanto mai fuorviante, “Tu non puoi capire – Perché Isabella Internò è innocente”. Ora, io appartengo alla categoria, vorrei dire folta, ma non è mai stato così, che da più di venticinque anni si occupa del “caso Bergamini” e lo ha fatto cercando sempre di mantenere la giusta distanza e il rispetto doveroso riguardo alla vittima (un ragazzo di 27 anni ancor prima che un professionista del calcio), dei suoi famigliari e soprattutto nel pieno rispetto di una verità giudiziaria che al momento condanna l’unica incriminata, Isabella Internò. L’unica persona che, fino a prova contraria, ha assistito alla morte di Bergamini. Unica imputata la Internò di un processo senza fine, iniziato quasi quarant’anni fa e dopo insabbiamenti, depistaggi e nuove prove acquisite ha portato alla condanna in primo grado della donna. Condannata a 16 anni di reclusione dalla Corte d’assise di Cosenza con l’accusa di omicidio volontario premeditato in concorso con ignoti. Chi si è occupato a fondo del “caso Bergamini” sa che tutto il mistero ruota proprio intorno a quegli ignoti di cui solo una persona presente sul luogo del delitto e non del suicidio, può aver visto. Si tratta dei soliti ignoti di quella Cosenza di fine anni ’80, i quali l’avrebbero fatta franca se l’avvocato Fabio Anselmo (l’avvocato della famiglia Cucchi) e il team di parte civile con la tenacia della sorella di Denis, Donata Bergamini, non fossero riusciti ad ottenere la riapertura dell’inchiesta che ha condotto a quest’ultimo processo. Ora la Lucarelli vorrebbe ricostruire la vicenda «spoglia di suggestioni, dicerie di paese, interpretazioni illogiche dei fatti», perché è convinta, anzi ha la certezza – beata lei - che «Denis Bergamini si è suicidato e Isabella Internò è innocente». Dichiarazioni che fanno pensare all’inutilità della magistratura, delle testimonianze, dell’informazione stessa che dinanzi alla verità assoluta se non addirittura rivelata (da chi?) dovrebbe tacere. Ma quando poi la Lucarelli conclude con il qualunquistico: «questo caso è più surreale di Garlasco… Il movente passionale non è suffragato da alcuna prova», ci cadono le braccia. In un mondo come il nostro, quello dell’informazione, dove ormai è una gara quotidiana all’ultimo like sui social, non ci può essere partita contro questi signori dei fardelli e delle verità assolute e condivise dalla maggioranza, per niente silenziosa, dei tigrotti da tastiera. Io mi limito alle mie umili ricerche decennali sul caso, in cui ho ascoltato decine di testimonianze arrivando a delle conclusioni che non sono né giustizialiste, né assolutorie, ma credo più vicine a una realtà che non scagiona, soprattutto chi parla di suicidio del calciatore. “Il centrocampista fu assassinato verso sera”, se fosse ancora qui tra noi, potrebbe essere il titolo del sequel del romanzo di Manuel Vázquez Montalbán. «La famiglia Bergamini deve augurarsi solo la verità, come tutti. E non è quella della sentenza di primo grado», sottolinea ancora con sicumera la Lucarelli. In un ristorante di Monticiano (Siena), l’ex calciatore caduto nel fango del dio pallone, Carlo Petrini, nel 2000 mi raccontava della sua inchiesta personale che da lì a poco sarebbe confluita nelle pagine del libro-inchiesta Il calciatore suicidato (Kaos Edizioni, 2001). Petrini, per andare a fondo al mistero del “calciatore suicidato” si era spinto fino a Cosenza, la città che, dal 1985, anno dell’approdo di Denis in rossoblù, l’aveva adottato. Petrini raccolse molti pezzi di verità e per questo fu anche minacciato con tanto di lettere anonime (alcune le conservo ancora), ma anche con una serie di testimonianze false e depistanti che, in fase investigativa prima e nelle aule dei tribunali poi, hanno dato luogo a una serie di errori giudiziari che vanno ascritti al fascicolo “malagiustizia”. Questo è il principale faldone ideale che ha ispirato la docuserie di Pablo Trincia, Il cono d’ombra. La storia di Denis Bergamini| (in onda su Sky nel giugno scorso ) che nel tentativo di illuminare il cono delle ombre poco tempo fa ha detto ad “Avvenire” che in questa vicenda di Bergamini «dobbiamo parlare anche di “malamedicina”: tecnici e periti scientifici che oggi ammettono di avere stilato relazioni che non avrebbero dovuto firmare e medici legali che serbano forti dubbi sul proprio operato di allora». Anche Trincia, come tutti noi, rimarca l’assenza di un solo osso rotto dopo che sul corpo di Bergamini era passato sopra un camion che trasportava 125 quintali di mandarini. No Lucarelli, 125 quintali su un corpo rimasto intatto. E poi ci sono le innumerevoli contraddizioni di Isabella Internò che parla solo con la Selvaggia, ma con chi da sempre le chiede spiegazioni, senza nessun piano accusatorio, non fiata. «Con la Internò non è stato possibile parlare nella realizzazione del docufilm e quindi per compensare l’impossibilità di avvicinarla abbiamo inserito gli audio del primo processo del 1991», spiegava Trincia. Un racconto secondo noi assurdo quello della Internò reso davanti al giudice di Castrovillari e fedelmente riportato nella docuserie: «Dovevo accompagnare Denis a Taranto perché doveva partire, si era scocciato del calcio, voleva andare alle Azzorre… Poi ci siamo fermati nella piazzola e ci siamo messi a parlare. Lui voleva andare fuori e io pregavo che doveva restare. Lo pregavo… “Allora dammi la possibilità di chiedere l’autostop - disse - . Se le prime cinque macchine non si fermano torno a Cosenza con te”. Denis allora è sceso e guardava le macchine, poi come un tuffo in piscina si è buttato sotto il camion. Prima però mi ha fissato e mi ha detto: “Ti lascio il mio cuore, ma non il mio corpo”». Questa la presunta scena del finale di partita con l’esistenza “recitata” da Denis, secondo il racconto reso dalla Internò. Ma Bergamini non si sarebbe mai e poi mai suicidato. Non lo diciamo noi “giornalisti partigiani”, ma quelli che l’hanno conosciuto bene, a cominciare dai compagni di squadra di quel Cosenza. Nessuno di loro ha mai dubitato che si trattasse di un omicidio, perché Denis Bergamini era un ragazzo che amava il calcio e la vita sopra ad ogni cosa e all’indomani di quel drammatico 19 novembre non vedeva l’ora di vivere l’adrenalina da derby contro il Messina. Il suo “fratello” calcistico e compagno di stanza, Michele Padovano, parla da sempre di un ragazzo dotato di una straordinaria vitalità e di un talento con prospettive future in Serie A («mi piacerebbe andarci in A, con il Cosenza», rispose alla stampa che lo informava: Parma e Fiorentina sono pronte ad acquistarlo) quindi distante anni luce dall’ipotesi assurda di togliersi la vita. E poi in quelle circostanze? Purtroppo il suo destino era segnato, perché era finito nelle mani di «qualcuno che mi vuole male», confessò la settimana prima di essere ucciso alla sua nuova fidanzata, Roberta. Tornato per una breve vacanza a casa dei suoi genitori, a Boccaleone (Ferrara), ricevette una strana chiamata telefonica al termine della quale Denis apparve provato agli occhi della sua famiglia, «sudava a freddo» (testimonianza del padre Domizio). Forse a chiamarlo fu la stessa persona del giorno della sua morte (gli ignoti) e di un’altra telefonata, l’ultima, fu testimone diretto lo stesso Padovano. «Quel 18 novembre pranzammo come sempre al Motelagip e poi si andava a riposare in camera fino alle ore 16. Alle 15 suonò il telefono, Denis risponde… Non parla, ascolta e non dice nulla. Gli dico: “Berga” dai prendiamo la mia macchina per andare al cinema Garden? Ma lui rimane in silenzio, era completamente imbambolato dopo quella telefonata». L’ultima volta che Padovano vide Denis vivo fu al cinema Garden quando a un certo punto dalla poltrona in galleria dove si era seduto si alzò ed uscì letteralmente di scena. «Ad aspettarlo fuori c’erano “due sagome”», racconta Padovano a Trincia. Da quel momento calò il cono d’ombra che, da allora non è stato mai del tutto illuminato ma non si possono neppure sparare dei riflettori spettacolari ed emettere delle sentenze che non competono a podcast o a un giornalismo che non abbia fatto davvero un’inchiesta approfondita al punto da avere delle certezze serie e reali. «Nel cono d’ombra ci sono le tante cose non dette e che forse non verranno mai rivelate dal clima omertoso cominciato nel lontano 1989. Silenzi colpevoli che hanno continuato ad alimentare il mistero – concludeva Trincia - . Però noi, nei momenti in cui avevamo dei dubbi abbiamo trovato sempre le risposte nel corpo di Denis. Il suo corpo parla e racconta la vera storia dell’omicidio. Ora la speranza è che qualcun altro parli e riveli i nomi degli altri responsabili perché Donata e la sua famiglia hanno il diritto di conoscere la verità». Se la Internò è innocente, come dice la Lucarelli, quell’innocenza va provata sulla base delle informazioni che solo lei conosce, come probabilmente sa i nomi di quegli ignoti che hanno spento per sempre la luce buona della stella di Denis Bergamini.
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