Il Medioevo visto da Nord ci costringe a ripensare la nostra storia
Francesco D’Angelo esplora l’Età di mezzo dal per noi inconsueto punto di vista della Scandinavia: un invito a riflettere sulla geografia mentale della nostra storiografia

Ci sono regioni della storia che restano ai margini del nostro sguardo, non perché meno importanti, ma perché troppo lontane dalle nostre abitudini mentali. Il Nord – l’estremo Nord – è una di queste. Non un semplice confine d’Europa, ma un mondo a sé, con la sua luce, le sue leggende, le sue città di legno e di mare. È qui che ci conduce Francesco D’Angelo, ricercatore in Storia medievale alla Sapienza di Roma, nel suo Medioevo nordico. La Scandinavia dall’età delle migrazioni alla Riforma protestante, appena edito da Carocci (pagine 224, euro 19,00). Un itinerario nella lunga durata della storia scandinava, che restituisce voce a un Medioevo fatto di re, guerrieri, scaldi, monaci e viaggiatori. Un mondo che la storiografia nostrana ha a lungo trascurato, schiacciata dal peso della latinità e da un radicato italocentrismo. Nell’introduzione, lo si afferma chiaramente: «al di là del possibile ostacolo costituito dalla lingua norrena (o antico nordico), la cui conoscenza è un requisito necessario per poter consultare in originale molte delle fonti nordiche medievali, la ragione di un simile disinteresse va con ogni probabilità ricercata in un “limite strutturale” della medievistica italiana, tradizionalmente poco incline a mostrare attenzione per le storie “esterne” alla propria area di appartenenza». Parole sincere, che invitano a riflettere sulla geografia mentale della nostra storiografia, schiacciata, spesso, sulle storie locali (a volte, localissime!), ingenuamente elevate a sistema, a casi-di-studio validi sempre e comunque. Un riconoscimento di prospettiva che vale come un manifesto di metodo. Perché il Nord di D’Angelo non è soltanto una regione: è un orizzonte di sguardo, un modo di ripensare l’Europa dalle sue periferie attive, dai suoi margini generativi.
Lontana solo in apparenza, la Scandinavia è un ponte tra mondi diversi: tra Bisanzio e l’Occidente, tra il paganesimo e la Cristianità. Ciò che pare periferia è nodo di scambi, crocevia di culture, spazio di sperimentazione politica e religiosa. Medioevo nordico nasce da questa constatazione – e da decenni di ricerche appassionate –, collocandosi su un crinale affascinante tra storia regionale e “transnazionale”. D’Angelo procede con passo sicuro. L’età del Ferro e quella delle migrazioni appaiono come una fase di transizione profonda: clan in movimento, lingue nascenti, simboli che si fondono. L’età vichinga – cuore pulsante del volume – emerge non come epopea barbarica, ma come fase di straordinaria energia creativa. Dietro l’immagine del vichingo che la cultura pop ha trasformato in icona, l’autore restituisce la figura del mercante, dell’esploratore, del poeta. Le sue “navi-drago” non portano soltanto guerra: recano merci, idee, racconti. Solcano l’austrvegr e il vestrvegr – le “rotte d’Oriente” e “d’Occidente” – sino a Costantinopoli e alle terre del califfato abbaside, da un lato, alla Normandia, all’isola bretone e alle coste gallo-iberiche, dall’altro, in un mondo che appare già “globale” prima della parola stessa. In questo paesaggio di mare e ghiaccio si stagliano personaggi eccezionali: da Haraldr Hárfagri, (“Bellachioma”), primo re di Norvegia, a Leifr Eiríksson, scopritore del Vínland; da Sigurðr il Gerosolimitano a Snorri Sturluson, il più grande degli scaldi. Nei capitoli centrali, il tono si fa più analitico: il Nord è narrato come un mosaico di regni in via di unificazione – la Norvegia di sant’Olav, la Danimarca di Valdemaro, la Svezia inquieta di Magnus Eriksson – e di città che diventano nodi del commercio anseatico. L’autore mostra come la crescita urbana, l’organizzazione dei mercati, la codificazione del diritto, fenomeni comuni a tutto l’Occidente, siano declinati, qui, in chiave peculiare. Il Baltico si presenta, sì, come un secondo Mediterraneo; le saghe islandesi come la voce epica d’una civiltà che impara a scrivere sé stessa. Ma con modalità proprie. Nelle ultime sezioni, dedicate alla cosiddetta “Grande Scandinavia”, la narrazione si tinge di malinconia: la dissoluzione delle antiche solidarietà, la scomparsa delle colonie groenlandesi, la disgregazione dell’Unione di Kalmar, preludono al tempo della Riforma e alla fine del mondo medievale. Ma, in quel tramonto, D’Angelo vede anche un’alba: la nascita di una coscienza storica moderna, di regni che si pensano come nazioni. Ogni civiltà – sembra suggerire – conosce il proprio inverno, ma da quel gelo nasce una nuova forma di vita.
Medioevo nordico non ricostruisce solo una sequenza di eventi: restituisce un orizzonte mentale, un modo di pensare il tempo e lo spazio. Le rotte che attraversano il Baltico, la Manica e il Mare d’Irlanda disegnano un reticolo d’incontri e di mescolanze culturali, dove la violenza della conquista convive con la curiosità dello scambio. Archeologia, fonti letterarie e saghe islandesi s’intrecciano senza ostentazione: l’autore le maneggia con eleganza filologica e sensibilità storica, facendoci percepire l’intelligenza politica di quelle società, la profondità dei loro culti, la finezza della loro arte; non indulge nell’erudizione, ma restituisce con acribia la vita che pulsa sotto i documenti. Quando descrive la conversione al Cristianesimo, ad esempio, non parla solo di missioni e battesimi, ma di trasformazioni profonde delle mentalità, di passaggi dall’oralità alla scrittura, di un nuovo modo di rappresentare il potere. Così, la cristianizzazione diventa il simbolo di un intero processo di acculturazione: la nascita di una civiltà europea che include finalmente il Nord nel proprio racconto.
Siamo di fronte, insomma, a un libro riuscito. Al contempo, a un invito potente a decentrare lo sguardo, a pensare un’Europa che nasce non solo a Roma o a Parigi, ma anche a Uppsala, a Bergen, a Trondheim. Un’Europa di mari, di migrazioni e d’incontri. C’è in queste pagine una lezione di metodo: la storia si capisce solo guardandola per intero, senza operare gerarchie. Perché ogni civiltà ha il suo Nord: il luogo dove finisce la paura e comincia la conoscenza, dove l’ignoto diventa misura, e la distanza, forma di comprensione.
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