mercoledì 14 ottobre 2020
Vito Molinari ha legato i nastri rosa della televisione: fu lui, venticinquenne, il regista della trasmissione inaugurale della Rai, il 3 gennaio 1954. Da allora diresse spettacoli come il mitico Un, due, tre con Tognazzi e Vianello; L’amico del giaguaro (Gino Bramieri, Marisa Del Frate, Raffaele Pisu, Corrado); varie Canzonissima compresa quella del 1962, quando Dario Fo e Franca Rame diedero forfait. Ma Molinari è anche regista di operette e di lavori teatrali, senza dimenticare cinquecento Caroselli. Ha scritto diversi libri, il più nuovo dei quali si intitola Vite maledette. Autobiografie apocrife (Gammarò, pagine 170, euro 18). Perché “apocrife”, queste cinque autobiografie? Perché Molinari ha usato l’espediente letterario di far raccontare in prima persona la propria vita ai protagonisti subito dopo la morte, “a cadavere caldo”, come si dice. Il più inquietante dei cinque è il musicista Alessandro Stradella (1643–1682), anche perché ha l’abitudine di apparire in forma di fantasma in piazza Banchi a Genova, dove fu assassinato con la moglie Hortensia da sicari forse assoldati dal nobile Contarini di Venezia, precedente amante di lei. Molinari non nasconde i particolari delle imprese amorose del celebre compositore, mentre è più sobrio con gli altri quattro protagonisti. L’altro musicista, Carlo Gesualdo da Venosa (1566–1613) non è da meno. Fu lui a dare la coltellata finale alla moglie, la bellissima Maria d’Avalos, sorpresa in flagrante con l’amante Fabrizio Carafa, ucciso da due sgherri reclutati dal marito. Di Michelangelo Merisi da Caravaggio (ma era nato a Milano), morto a trentasette anni il 18 luglio 1610, tutti conosciamo le traversie: sommo pittore ma sempre in mezzo a zuffe («Non cercavo io le risse, esse venivano a me, naturalmente») e gozzoviglie, squattrinato. Molinari racconta in dettaglio le quotazioni di alcuni suoi quadri: La Caduta di San Paolo e Il Martirio di San Pietro nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, fruttarono quattrocento scudi; La morte della Madonna, rifiutata dal clero di Santa Maria della Scala, in Trastevere, fu acquistata per 280 scudi d’oro dal Gonzaga, duca di Mantova; la pala delle Sette opere di Misericordia corporale fu compensata con 400 ducati, ma i soldi non bastavano mai. Donne, droga e alcol abbreviarono la vita di Amedeo Modigliani (1884–1920), che trovò breve pace con la moglie Jeanne Hébuterne la quale, incinta di nove mesi, il 25 gennaio 1920 si gettò dal balcone della loro casa, il giorno dopo la morte del marito. Paradossalmente, il più “normale” del quintetto è Antonio Ligabue, clinicamente “matto”, appassionato di motociclette, che morì a 65 anni nel 1965, quando stava emergendo la sua fama di pittore. Andrea Tarabbia – che con Madrigale senza suono, sulla vita di Carlo Gesualdo da Venosa, ha vinto il Campiello 2019 – nella prefazione osserva: «Scrivere la propria vita oltre la vita: non c’è quasi nulla di più straordinario, e di più letterario, di questo». È proprio così, ed è per questo che bisogna soffermarsi sulle singole opere degli artisti “nonostante” le loro vite, oneste o tumultuose che siano.
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