Vino, le etichette devono fare rete
sabato 23 novembre 2013
Il vino italiano rappresenta una delle poche eccezioni positive di fronte alla crisi globale: «vale» quasi 14 miliardi di euro l'anno tenendo conto anche dell'indotto. Un vero tesoro che, tuttavia, è da accudire. Non solo per il significato d'immagine che le etichette nostrane si portano dietro, ma anche per validi motivi economici. Il vino, infatti, consente all'Italia di mantenere il primato tra i Paesi esportatori con una quota del 22% del mercato mondiale, mentre le vendite oltreconfine di bottiglie nazionali a fine 2013 potrebbero toccare per la prima volta 5 miliardi (+9%), stabilendo un nuovo record storico.I numeri del settore sono stati raccolti qualche giorno fa, in occasione dell'edizione 2013 del Forum vitivinicolo nazionale, dalla Cia-Confederazione italiana agricoltori che ha lanciato un messaggio: la cosiddetta filiera del vino può ancora crescere, ma occorre una sorta di salto di qualità, di scatto in avanti non facile da fare. È necessario, cioè, aggregarsi. Concetto spesso difficile da applicare in agricoltura, anche se l'esempio delle innumerevoli cooperative e cantine sociali testimonia il contrario. Quello dell'unire le forze pare essere in effetti lo strumento necessario per mettere in condizione la vitivinicoltura dello Stivale di crescere ancora e macinare altri successi.Anche in questo caso alcuni numeri fanno comprendere la necessità economica dell'aggregazione. La dimensione media delle imprese agricole nazionali è pari a circa 8 ettari, contro i 12 dell'Europa. Con tutto quello che ne consegue in termini di forza economica. È una sorta di freno alla crescita che soprattutto nel vino si fa sentire. Non è un caso, fra l'altro, che le etichette con una «forza mondiale» siano quelle cooperative (fatta eccezione per alcuni blasonati nomi di nicchia). Proprio sulle vendite all'estero, però, pare occorra puntare per sperare di crescere. In meno di 40 anni, infatti, il mercato nazionale del vino ha perso oltre il 60%. La morale? Rimanere piccoli non paga. Occorre appunto aggregarsi, mettere insieme le forze mantenendo magari le individualità aziendali. Pare che già oggi la quota di imprese che esprimono un miglioramento della propria competitività all'estero grazie a processi aggregativi di filiera vada dal 20%, nel caso delle micro imprese, a oltre il 30% nel caso delle medio-grandi.Da qui l'appello a valorizzare non solo gli strumenti della cooperazione tradizionale (cantine sociali e consorzi), ma anche quelli che fanno riferimento alle «organizzazioni di produttori» e alle «organizzazioni interprofessionali», senza dimenticare le cosiddette «reti d'impresa». Accanto a tutto questo poi, ci sono le richieste comuni a gran parte dell'agricoltura e delle attività produttive: semplificare e velocizzare la logistica, abbattere i costi e la burocrazia, tagliare il cuneo fiscale che incide sul lavoro, accedere e ampliare la promozione e il marketing. Ma la sfida vera è sempre la solita: riuscire a unire le forze.
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