
Caro Avvenire, assistiamo alle scoppiettanti iniziative del presidente Trump: non sarebbe il momento di riscrivere democraticamente le norme che regolano le Nazioni Unite? Non è infatti accettabile che l’intero mondo sia sotto “scacco” del signorotto del momento, il quale si crede autorizzato a ridisegnare il destino dei popoli secondo i suoi interessi economici. Naturalmente, eliminando il diritto di veto anacronistico di cinque nazioni (Usa, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina). Se non restituiamo credibilità e democrazia all’Onu, non raggiungeremo mai l’armonia terrena.
Giovanni Bortolin
Motta di Livenza (Treviso)
Caro Bortolin, la riforma dell’Onu è come mettere d’accordo tutti gli italiani sul cantante più meritevole di vincere il Festival di Sanremo. Mi perdoni l’ironia e lo scetticismo su un argomento così serio, ma temo siano stati più numerosi gli editoriali di Avvenire rivolti a questa necessità, qualcuno anche a mia firma, che i reali tentativi di cambiare lo statuto delle Nazioni Unite. E se in passato, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino e l’avvicinamento della Russia all’Occidente, non si è colto l’attimo propizio, temo che attualmente le speranze vadano riposte in attesa di tempi migliori.
La ragione è sotto gli occhi di tutti. Nessuna delle tre grandi potenze globali crede nelle virtù del multilateralismo e della delega a organismi sovranazionali. Di Russia e Cina sapevamo. Oggi dobbiamo constatare che gli Stati Uniti di Donald Trump si sono ritirati dall’Organizzazione mondiale della sanità, dagli Accordi sul clima di Parigi e dal Consiglio per i diritti umani; hanno messo sotto sanzioni la Corte penale dell’Aja, oltre a smantellare l’agenzia nazionale per la cooperazione all’estero. Difficile, pertanto, immaginare che il capo della Casa Bianca nutra un reale interesse per l’Onu e la sua efficacia. L’ha già fatto capire nominando ambasciatrice al Palazzo di Vetro Elise Stefanik, che ha attaccato l’Assemblea definendola “marcia e antisemita” per una risoluzione che condannava Israele.
Non potendo, almeno per ora, progettare un futuro più roseo, cerchiamo di imparare dalla storia, considerando come, a un secolo di distanza, si stia riproponendo un copione molto pericoloso. Nel 1920, il Senato americano respinse l’ingresso nella Società delle Nazioni, l’organismo internazionale proposto dal proprio presidente Woodrow Wilson alla fine della Prima guerra mondiale per garantire la pace e la collaborazione tra gli Stati. Fu infatti Wilson (grazie a ciò premiato con il Nobel per la pace), il promotore più attivo dell’organizzazione progenitrice delle attuali Nazioni Unite, che venne inclusa nel Trattato di Versailles (1919).
Tuttavia, sia quest’ultimo sia la Società delle Nazioni incontrarono una forte opposizione negli Stati Uniti. Guidato da una maggioranza repubblicana con Henry Cabot Lodge e il gruppo degli irreconciliabili, il Senato – che ha il potere costituzionale di approvare i trattati – si oppose all’adesione, temendo che avrebbe obbligato gli Usa a intervenire in conflitti internazionali senza l’approvazione del Congresso, con una perdita di sovranità. L’articolo 10 dello Statuto prevedeva infatti un impegno collettivo in difesa di qualsiasi membro attaccato. Inoltre, dopo la guerra, l’opinione pubblica e parte della classe politica americane preferivano un ritorno alla linea isolazionista, libera da legami troppo stretti con l’Europa.
Paradossalmente, gli Usa non fecero quindi mai parte della Società, indebolendola sin dall’inizio. Tale scelta è ritenuta da alcuni storici una delle cause, tra le altre, della fragilità diplomatica che contribuì allo scoppio della Seconda guerra mondiale. I grandi avvenimenti della storia universale si presentano due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa, scrisse Karl Marx. In quest’occasione però, caro Bortolin, sembra che la ripetizione rischi di essere drammatica quanto la prima occorrenza.
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