Le parole come pietre e i difficili confini tra coerenza e censura
Fare pubblicità al male, estetizzarlo, o sfruttarlo cinicamente per vendere un prodotto di intrattenimento è un comportamento non etico. Questo non significa rinunciare a raccontare la cattiveria
Caro Avvenire, francamente non capisco come si possa conciliare quanto scrive Lavazza in risposta a un lettore (“in interviste ai media Reiner aveva attaccato Trump con parole molto dure, arrivando a definirlo un "criminale" e paragonandolo a uno "zombie o uno scarafaggio" nel contesto delle dinamiche politiche degli Stati Uniti. In nessuna occasione, però, aveva incitato alla violenza o fatto riferimento ad azioni non democratiche per un cambio della leadership nel Paese”) con quanto sostenuto infinite volte da Avvenire sugli effetti negativi della violenza del linguaggio (“parole come pietre”). Avvenire ha addirittura contribuito a lanciare la campagna sociale Anche le parole possono uccidere per “sensibilizzare gli italiani, soprattutto i giovani, sui rischi di un uso superficiale delle parole, che può alimentare l’intolleranza”. Qualcosa non quadra.
Roberto Bianchi
Roberto Bianchi
Caro Avvenire, si sta facendo qualcosa per “moralizzare” quella parte d’informazione che risulta, a mio parere, davvero “pesante” se non esagerata? Mi riferisco alle trasmissioni televisive di reti nazionali che, immagino, tengono incollate allo schermo televisivo molte persone, tra le quali anche chi non ha un livello di istruzione sufficiente a garantire pieno senso critico verso certo modo d’informare, fatto salvo, s’intende, il diritto di cronaca. Concludo con un’ulteriore domanda: una volta, almeno nel mondo cattolico, non si diceva che non fosse opportuno né costruttivo fare troppa pubblicità al male dato che così si rischia di stimolare una sorta di desiderio di imitazione?
Angelo Pinna
Azzano San Paolo (Bergamo)
Angelo Pinna
Azzano San Paolo (Bergamo)
Cari lettori,
è tempo di Natale ma non possiamo sottrarci alla dura realtà del dibattito pubblico in cui siamo immersi. Dico “dura” perché, come giustamente sottolineate, vengono scagliate parole contundenti senza più curarsi delle conseguenze, anzi, a volte compiacendosi della rissa, ritenuta ormai una delle poche modalità utili a mantenere l’attenzione di un pubblico sempre più distratto. Ma non voglio nemmeno sottrarmi al suo rilievo, caro Bianchi. C’è contraddizione tra quanto ho scritto sul caso Reiner e l’impegno di questo giornale contro il linguaggio che uccide? A me non pare, ma se lei l’ha vista, vale la pena di tornare sul tema. Donald Trump ha di fatto accusato il regista assassinato di essersela cercata in ragione delle sue intemerate contro di lui. Molti media hanno sottolineato questo fatto senza contestualizzarlo, semplicemente criticando il capo della Casa Bianca. Io ho cercato di spiegare il motivo per cui il presidente degli Stati Uniti aveva il dente avvelenato nei confronti di un rinomato autore cinematografico – fortemente impegnato nell’opposizione ai repubblicani Usa – e ha poi espresso commenti impietosi e fuori bersaglio dopo l’omicidio, che nulla ha a che fare con la polemica politica. Questo era dunque il punto specifico. Anche le parole di Reiner erano, a mio avviso, eccessive: non sono state però all’origine del delitto. Capisco tuttavia l’implicita, ulteriore considerazione: se le parole sono pietre, chiamare il leader del Paese “zombie” o “scarafaggio” (quale che sia la cornice in cui si usano questi termini) può suonare quale incitamento alla violenza. Alcune volte, è così. Ma non sempre, altrimenti troveremmo istigazioni a delinquere a ogni cambio di canale televisivo o a ogni scorrimento di post sui social media, come ci ricorda il signor Pinna. Reiner non voleva un’insurrezione stile assalto al Campidoglio. Alcune sue accuse, comunque, erano ampiamente criticabili, e per questo le ho riportate esplicitamente nella mia risposta. Tali notazioni ci offrono l’opportunità di sottolineare quanto sia cruciale e insieme difficile (persino lacerante) tracciare linee nette tra contenuti accettabili nell’ambito della libertà di espressione, tutelata dall’articolo 21 della nostra Costituzione, e invettive o apologie di reato che si pongono al di fuori di qualunque tolleranza. Un caso recente è stata la presenza alla fiera romana “Più libri più liberi” di uno stand dell’editore "Passaggio al bosco", che pubblica volumi di teorici ed esponenti del nazifascismo. Si doveva rifiutarne la partecipazione, secondo le richieste di tanti? Io direi di no. Mi preoccupano di più tante opere mainstream pubblicizzate in prima serata che strizzano l’occhio al “Mussolini buono”. Legittime, però, alla fiera le manifestazioni di dissenso e i boicottaggi individuali. C’è poi la proposta di legge presentata dall’onorevole Maria Carolina Varchi di Fratelli d’Italia che vorrebbe sanzionare chi “ripropone atti o comportamenti” di personaggi mafiosi con intento “apologetico”, anche attraverso “serie televisive che mitizzano personaggi reali o immaginari delle varie associazioni criminali di stampo mafioso”. Si vuole vietare “Gomorra”? Non sembra questa la volontà. E, in ogni caso, sarebbe un sopruso. Soprattutto, si introdurrebbe uno strumento giuridico che potrebbe diventare veicolo di censura per ciò che è sgradito al potere. Rimane il piano morale, caro Pinna. Fare pubblicità al male, estetizzarlo, cedere alla sua fascinazione o sfruttarlo cinicamente per vendere un prodotto di intrattenimento è senza dubbio un comportamento non etico, che dovremmo contrastare. Questo non significa rinunciare a raccontare la cattiveria che viene commessa e quella che viene immaginata nella grande arte: da Macbeth a Delitto e castigo fino a 1984, il male è mostrato, reso intelligibile, problematizzato e restituito al lettore come evento insopportabile, non esempio da imitare. In altre opere, quale American Psycho, per citare un esempio noto, il confine si fa labile. E lo stesso accade al cinema. In modo più discutibile in merito all’onnipresente caso Garlasco. In definitiva, misurare le parole non vuole dire solo continenza verbale, bensì uso appropriato della comunicazione in tutte le sue forme secondo le circostanze e gli obiettivi. Con carità e rispetto delle persone. Anche così si fa un Buon Natale.
è tempo di Natale ma non possiamo sottrarci alla dura realtà del dibattito pubblico in cui siamo immersi. Dico “dura” perché, come giustamente sottolineate, vengono scagliate parole contundenti senza più curarsi delle conseguenze, anzi, a volte compiacendosi della rissa, ritenuta ormai una delle poche modalità utili a mantenere l’attenzione di un pubblico sempre più distratto. Ma non voglio nemmeno sottrarmi al suo rilievo, caro Bianchi. C’è contraddizione tra quanto ho scritto sul caso Reiner e l’impegno di questo giornale contro il linguaggio che uccide? A me non pare, ma se lei l’ha vista, vale la pena di tornare sul tema. Donald Trump ha di fatto accusato il regista assassinato di essersela cercata in ragione delle sue intemerate contro di lui. Molti media hanno sottolineato questo fatto senza contestualizzarlo, semplicemente criticando il capo della Casa Bianca. Io ho cercato di spiegare il motivo per cui il presidente degli Stati Uniti aveva il dente avvelenato nei confronti di un rinomato autore cinematografico – fortemente impegnato nell’opposizione ai repubblicani Usa – e ha poi espresso commenti impietosi e fuori bersaglio dopo l’omicidio, che nulla ha a che fare con la polemica politica. Questo era dunque il punto specifico. Anche le parole di Reiner erano, a mio avviso, eccessive: non sono state però all’origine del delitto. Capisco tuttavia l’implicita, ulteriore considerazione: se le parole sono pietre, chiamare il leader del Paese “zombie” o “scarafaggio” (quale che sia la cornice in cui si usano questi termini) può suonare quale incitamento alla violenza. Alcune volte, è così. Ma non sempre, altrimenti troveremmo istigazioni a delinquere a ogni cambio di canale televisivo o a ogni scorrimento di post sui social media, come ci ricorda il signor Pinna. Reiner non voleva un’insurrezione stile assalto al Campidoglio. Alcune sue accuse, comunque, erano ampiamente criticabili, e per questo le ho riportate esplicitamente nella mia risposta. Tali notazioni ci offrono l’opportunità di sottolineare quanto sia cruciale e insieme difficile (persino lacerante) tracciare linee nette tra contenuti accettabili nell’ambito della libertà di espressione, tutelata dall’articolo 21 della nostra Costituzione, e invettive o apologie di reato che si pongono al di fuori di qualunque tolleranza. Un caso recente è stata la presenza alla fiera romana “Più libri più liberi” di uno stand dell’editore "Passaggio al bosco", che pubblica volumi di teorici ed esponenti del nazifascismo. Si doveva rifiutarne la partecipazione, secondo le richieste di tanti? Io direi di no. Mi preoccupano di più tante opere mainstream pubblicizzate in prima serata che strizzano l’occhio al “Mussolini buono”. Legittime, però, alla fiera le manifestazioni di dissenso e i boicottaggi individuali. C’è poi la proposta di legge presentata dall’onorevole Maria Carolina Varchi di Fratelli d’Italia che vorrebbe sanzionare chi “ripropone atti o comportamenti” di personaggi mafiosi con intento “apologetico”, anche attraverso “serie televisive che mitizzano personaggi reali o immaginari delle varie associazioni criminali di stampo mafioso”. Si vuole vietare “Gomorra”? Non sembra questa la volontà. E, in ogni caso, sarebbe un sopruso. Soprattutto, si introdurrebbe uno strumento giuridico che potrebbe diventare veicolo di censura per ciò che è sgradito al potere. Rimane il piano morale, caro Pinna. Fare pubblicità al male, estetizzarlo, cedere alla sua fascinazione o sfruttarlo cinicamente per vendere un prodotto di intrattenimento è senza dubbio un comportamento non etico, che dovremmo contrastare. Questo non significa rinunciare a raccontare la cattiveria che viene commessa e quella che viene immaginata nella grande arte: da Macbeth a Delitto e castigo fino a 1984, il male è mostrato, reso intelligibile, problematizzato e restituito al lettore come evento insopportabile, non esempio da imitare. In altre opere, quale American Psycho, per citare un esempio noto, il confine si fa labile. E lo stesso accade al cinema. In modo più discutibile in merito all’onnipresente caso Garlasco. In definitiva, misurare le parole non vuole dire solo continenza verbale, bensì uso appropriato della comunicazione in tutte le sue forme secondo le circostanze e gli obiettivi. Con carità e rispetto delle persone. Anche così si fa un Buon Natale.
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