martedì 19 maggio 2020
L'onda lunga economica della pandemia non ha ancora investito in pieno l'Europa. Mentre tutti i Paesi dell'Unione stanno entrando in ordine sparso nella "fase 2" – quella della riapertura graduale di attività produttive e libertà di circolazione – l'effetto a medio e lungo termine delle restrizioni e dei sacrifici imposti dal contagio sulle società del continente è ancora difficile da percepire nelle sue effettive dimensioni. Ma non mancano segnali che possa trattarsi di un vero e proprio tsunami, sotto forma di disoccupazione massiccia e di impoverimento generale.

Ai primi di maggio i ministri del Lavoro e degli affari sociali dei "27" si sono riuniti in videoconferenza, per un esame degli effetti demografici che l'emergenza coronavirus potrà produrre, in vista di un report che la Commissione sta predisponendo. È stata anche l'occasione per un giro d'orizzonte sulle conseguenze occupazionali e per le economie degli Stati membri. Venerdì scorso, poi, è giunto il via libera del Consiglio Ue al varo tempestivo del "Sure", il fondo da 100 miliardi di euro per le casse d'integrazione salariali e per i meccanismi simili a supporto del mondo del lavoro.
Certamente un'ottima notizia, che non copre tuttavia l'area più svantaggiata delle marginalità sociali: chi il lavoro non l'aveva già da prima del Covid-19, la vasta galassia dei precari privi di tutele formali, i segmenti più degradati delle realtà periferiche urbane, che difficilmente vengono alla ribalta, salvo in casi eclatanti che si impongono alle cronache per violenze o proteste di massa. Nei giorni scorsi il nostro ministro del Lavoro Nunzia Catalfo citava una stima, secondo la quale sono
113 milioni gli europei a rischio di indigenza e di esclusione sociale, con circa 25 milioni di minorenni che già oggi vivono sotto la soglia di povertà.
È verosimile che il ricorso al Sure ridurrà in discreta misura quest'area enorme, pari a un quarto della popolazione complessiva dell'Unione, perché il pericolo di cadere nel girone dei più svantaggiati è correlato fortemente alla mancanza o alla perdita del posto di lavoro. Resta però un'ampia maggioranza degli "ultimi", ai quali le istituzioni europee non stanno ancora pensando come sarebbe opportuno.
Appare pertanto tempestiva e degna di nota l'iniziativa che la stessa Catalfo, insieme ai suoi colleghi Pablo Iglesias (Spagna) e Ana Mendes Godinho (Portogallo), hanno annunciato di comune accordo a nome dei rispettivi governi. La proposta è di adottare uno schema di "reddito minimo europeo" e in questi giorni viene formalizzata, sotto forma di richiesta ufficiale dei tre Paesi membri a Bruxelles. L'obiettivo finale è di creare un argine sociale all'impatto sui ceti più esposti della profonda recessione in arrivo.
Tenendo conto che in diversi Stati dell'Unione mancano strumenti strutturali di sostegno alle fasce di popolazione povere, l'idea è di prevedere una sorta di "scudo sociale" comune, che integri gli interventi nazionali quando essi si rivelino insufficienti a garantire un livello di sopravvivenza adeguato. Non si tratta di individuare un target monetario uguale per tutti, spiegano i proponenti, ma di prevedere una cornice di riferimento, al cui interno il reddito da garantire sia in linea con gli standard nazionali.
Per i singoli governi scatterebbe l'obbligo di prevedere forme di aiuti stabili, per il cui finanziamento se necessario interverrebbe la Ue. Il tempo stringe e l'emergenza-povertà incombe, sia pure in diversa misura, su tutto il continente. Nei giorni scorsi perfino nella ricca Ginevra, extracomunitaria ma molto europea, la fila dei poveri che all'alba attendevano il pacco di viveri raggiungeva il chilometro mezzo. Meglio per tutti non indugiare e non lesinare solidarietà.
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