domenica 9 ottobre 2011
Uno, nessuno o centocinquanta? Si parla dei figli che molti reclamano come un diritto e che ora si riesce a produrre in serie, come le automobili. Il 7 settembre la Repubblica, riferiva dal New York Times, che molti genitori di bambini nati con la donazione (a pagamento) di seme eterologo, ma desiderosi di far loro conoscere il padre naturale, sono riusciti, grazie al suo codice personale, a riunire su internet, in «famiglie allargate», i figli del medesimo donatore. Quando, però, si è scoperto che i fratellastri erano spesso 30 o 50 e perfino 150, sono cominciati i problemi. Qualche settimana dopo, sulla proposta di vietare l'inseminazione di donne con più di 43 anni, Gli Altri, settimanale di sinistra per la «libertà totale, di tutti, sempre e su tutti i piani» (esclusi, però, i figli), in un suo commento («Voglio un figlio. No, tu no», 30 settembre) ha giudicato «senza dubbio incostituzionale» la proposta e ha parlato di «diritto alla salute, che la legge 40 stropiccia». Dimenticava che: A) la salute non si recupera con la fecondazione artificiale, che non è una cura, ma una specie di protesi genetica temporanea; B) non esiste un «diritto» al figlio, perché non è possibile avere un diritto sopra una persona e, invece, è il figlio che ha diritto a una famiglia vera e a essere trattato con dignità e non come un prodotto artigianale. Perfino il noto prof. Carlo Flamigni, specialista in questa materia, è contrario alle maternità ultra menopausa: «È crudele fornire false speranze a donne che vorrebbero diventare mamme» e ricorda che negli Usa il limite è a 44 anni. Lui, in 25 di professione, ha visto «una sola donna di 46 anni portare a termine una gravidanza e nessuna che ne avesse di meno o di più: non è giusto sprecare soldi pubblici per probabilità così basse». Invece il ginecologo P. B. sentenzia: «Il limite di 43 anni non ha senso». Si capisce: è il «responsabile della clinica privata romana "Alma Res", specializzata in fecondazione artificiale», dove «un ciclo completo costa 4500 Euro», più i medicinali.

MORTO E CENSURATO
L'Unità (domenica 2) ha messo nel suo sito internet «l'intero archivio storico del giornale», dal 1924. Sono 548.371 pagine, davvero un bel lavoro, illustrato da 12 prime pagine sui grandi eventi della storia di quegli anni: il primo numero del giornale, il referendum monarchia/repubblica, gli assassinii di Kennedy e di Moro, l'attentato alla stazione di Bologna, la morte di Berlinguer… «Nell'archivio è documentata l'intera vicenda del Pci, dalla nascita allo scioglimento», scrive il Direttore Claudio Sardo. Così, però, se ne potrebbe dedurre che il quotidiano già del più grande partito comunista occidentale non abbia dato la notizia della morte di Stalin. Invece no: quel giorno (7 marzo 1953) la prima pagina dell'Unità la celebrava così: «Gloria eterna all'uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell'umanità». E, sotto, il commento del Pci: «Stalin, geniale continuatore di Lenin […] ha spezzato le catene dello sfruttamento dell'uomo […] per quella società comunista nella quale ogni uomo, finalmente libero…» eccetera. La censura comunista è tanto radicata anche nel postcomunismo che si ha paura di una foto di Stalin con lode. Oppure oggi se ne vergogna?
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