martedì 28 marzo 2023
In una delle sue brillanti raccolte di racconti intitolata “Finzioni” Borges attribuisce ad un eresiarca della fantomatica Uqbar un enunciato sorprendente: l’universo è illusione o sofisma e quindi paternità e specchi, assunti come archetipi di replicazione, sono abominevoli perché lo moltiplicano e ne divulgano l’inganno. L’eresiarca attualizzato ai nostri giorni avrebbe certamente aggiunto al dittico le intelligenze artificiali. La semplificazione di Borges attraverso le parole del personaggio in cui si confondono eresie esotiche e cultura popolare è funzionale a una fascinazione deviata che trae forza da accostamenti e proposizioni apparentemente credibili e inattese, capaci con il colpo di teatro di indurre nel lettore una resa incondizionata del senso critico. Il merito della proposizione si arrende alla forma suggestiva, meccanismo del suo snodo sintattico. Paternità e specchi in realtà hanno poco a che vedere l’una con gli altri, sono tangenze di identità incidentali, non duplicatori di sostanza e a voler essere precisi nemmeno di informazioni. Rivisitando le parole dell’agnostico direi che non moltiplicano nulla, generano costantemente altro rispetto all’identità di cui sono l’occasione passeggera. Per le intelligenze artificiali che Borges avrebbe certamente contemplato tra i moltiplicatori abominevoli, vale lo stesso. Il loro operatore aritmetico è l’addizione. Il prodotto del loro esercizio è del tutto singolare e distinguibile anche se le apparenze possono ingannare. L’universo è fenomeno di carne, non sofisma, fenomeno concreto ed esperibile di cui noi siamo la prima e ultima traccia perenne. Sono le IA che ne elaborano il sofisma articolato in infinite proposizioni sintattiche dai meccanismi privi di qualunque senso e mirabilmente organizzati. Immagini, video, fotografie, composizioni, musiche, formule generate dalle IA sono un artificio capzioso dentro cui finzione e realtà si confondono in un nuovo ibrido, la chimera mimetica di ciò che siamo, che a suo modo funziona, interagisce e ci rimane comunque estranea, perché altro, pur credibile, da noi. Tornando a Borges, ciò nelle IA è abominevole, almeno potenzialmente, non è la riproduzione, di per sé perennemente difettosa e inaccessibile, ma l’eco di identità che determinano. Il processo di addizione eterogenea delle intelligenze artificiali in ogni campo è inarrestabile, ogni giorno vengono vomitati nell’ecosistema distopico della websfera infiniti “riflessi del reale” di cui è difficile classificare il portato. La frequentazione quotidiana si arrende a queste risonanze improprie per assumerle a modello di “moltiplicazione” del reale che non sono, proprio come nel meccanismo letterario che permette alle parole dell’eresiarca di risultare “credibili”. Il fascino e il pericolo della realtà cui andiamo incontro a grandi passi è l’invilupparsi delle dialettiche dentro un labirinto senza uscita. Fantasmi e carne, bit e materia bruta si confondono, così come giudizio e database, discernimento e protocolli, oggetto e riflesso, in un magma di realtà irriducibili obbligate a convivere su uno stesso piano o, ancor peggio, ad articolarsi come omogenee. Ciò che affermo nell’ipotesi viene contraddetto dalla tesi e viceversa perché i parametri di riferimento possono saltare di dimensione in corsa, i sillogismi difettano di consequenzialità perché parlano lingue diverse, sono materie differenti. L’universo che ci viene dal futuro prossimo, proteo indecifrabile di specchi deformanti e paternità apocrife, ci chiede l’esercizio di una nuova logica, ibrido capace di tradurre la peculiarità del nostro essere umani nel contesto poco confortevole che ci regala uno strano privilegio: essere al contempo superficie riflettente e immagine riflessa. © riproduzione riservata
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