sabato 4 agosto 2018
Tavoli istituzionali, proiezioni ultradecennali, protagonismo dei corpi intermedi. Sembra stia nascendo un "sentimento nuevo" intorno a Roma, in direzione futuro. Dopo lunghi anni di straziante presentismo, ci sarà bisogno di una sequenza di fatti convergenti per certificare la svolta. Ma la consapevolezza dell'ultima chiamata utile, prima che la storica inefficienza della Capitale nella gestione dei servizi pubblici locali si trasformi in declino consolidato, è oggi diffusa nelle élites nazionali e romane.
I segnali più recenti sono incoraggianti. Prima l'intesa Raggi-Di Maio per la creazione di un "Tavolo per Roma" che metta insieme amministrazione capitolina e Ministeri interessati. Poi la presentazione della ricerca "Roma 2030" di Domenico De Masi: una proiezione qualitativa a 10 anni in cui prevalgono le tinte fosche, che ha rotto l'assordante silenzio della comunità scientifica sul futuro della Capitale. Seguiranno nei prossimi mesi iniziative di rilievo da parte di Unindustria, del Censis e della Fondazione Roma Europea, in cui il focus dovrebbe spostarsi dalle analisi ai progetti. A completare il quadro delle speranze c'è la revisione in corso del Codice Appalti, che dovrebbe superare i blocchi che hanno incatenato le stazioni appaltanti pubbliche più grandi e in maggiore difficoltà come Roma Capitale.
La sfida si presenta incredibilmente complessa. Ogni giorno a Roma, a fronte di 3 milioni di residenti, sono presenti in realtà 4,5 milioni di persone: i flussi turistici e l'accentramento delle istituzioni rendono la "Roma reale" più popolosa di ben il 50 per cento rispetto a quella anagrafica. Tutto ciò in un territorio molto più esteso (in rapporto alla popolazione) rispetto a quello delle altre Capitali europee e in cui opera la sede della religione più diffusa al mondo. Eppure, incredibile dictu, oggi gli strumenti a disposizione per gestire la Capitale sono esattamente gli stessi di un Comune di 1.000 abitanti, mentre Berlino, Londra, Parigi e Madrid godono di uno status speciale e di finanziamenti dedicati. Motivo per cui il mantra di Virginia Raggi è diventato giustamente «poteri, non soldi».
Occorre evitare come la peste, però, la trappola dell'auto-sufficienza del pubblico. Il successo di questa "lobby per Roma", infatti, dipenderà molto dalla capacità di mobilitazione dei privati. Impresa possibile su due versanti. Il primo è quello della presenza nella Capitale dei "quartieri generali" delle grandi imprese partecipate dallo Stato e di quelle privatizzate negli ultimi decenni: non coinvolgerle (seriamente) nel rilancio della Capitale sarebbe insensato, visto che sono oggi i veri driver della politica industriale del Paese. Il secondo versante è quello dell'Università e della ricerca: il settore – insieme al turismo – in cui la Capitale vanta una leadership assoluta, con 300mila studenti universitari e i più grandi enti di ricerca italiani. In quest'ambito bisogna alzare il livello della sfida, con una politica di attrazione dei talenti che trasformi le Università romane nel grande centro di formazione della classe dirigente del Mediterraneo.
Nella capitale delle lobby, dunque, sta nascendo finalmente una (sana) lobby per la Capitale. Che abbia successo è interesse di tutti gli italiani.
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