giovedì 24 novembre 2022
Con il termine “Ars moriendi”, cioè “l’arte di morire”, si indica un libretto illustrato di pietà, prodotto in forma lunga, e poi in una più breve e più didattica, verso la metà del 1400, per prepararsi adeguatamente e santamente alla morte. Dopo la drammatica esperienza della peste nera che aveva colpito l’Europa, la Chiesa cattolica promosse questa “guida” per affrontare la realtà della morte, in modo che ogni persona morisse in grazia di Dio, trovando adeguato accompagnamento umano e spirituale. L’opera, di autore anonimo, ebbe grande successo – prima in latino e poi tradotta in varie lingue – si diffuse in tutta Europa, offrendo, nel contesto sociale e religioso del tempo un aiuto per superare la paura e la solitudine di fronte alla morte. E diventò una specie di manuale per vivere bene il proprio morire, perché sia compimento, congedo, preparazione all’incontro e al giudizio di Dio. Si struttura in 6 capitoli: non temere la morte; le tentazioni contro le virtù (cioè mancanza di fede, disperazione, impazienza...); la consolazione che viene dalla redenzione di Cristo; la necessità di imitare la vita di Cristo; i compiti della famiglia e degli amici sul letto di morte; la preghiera per i moribondi. Nel Rinascimento questa visione viene ripresa da Erasmo da Rotterdam con La preparazione alla morte (1533), in cui la riflessione umanistica continua la tradizione precedente. E nel 1621 san Roberto Bellarmino pubblica L’arte di ben morire, andando verso una tendenza ascetica che, richiamando la morte, induce a rivedere la propria esistenza (in tal senso anche sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Apparecchio alla morte, 1758). Ai nostri giorni vi è la sollecitazione, da più parti, per una nuova, attuale, ars moriendi (cfr, ad esemio, S. Spinsanti). Il contesto di oggi è molto diverso: una società secolarizzata, una medicina molto più “potente” nel controllare la vita umana e rinviare il decesso (morte medicalizzata); una impostazione di vita frenetica, consumistica, individualistica, che cerca di non pensare alla fine (morte “rimossa”). Occorre allora ripensare l’ars moriendi, attualizzandola al contesto moderno. Trovare modalità nuove per prepararsi “per tempo”, cioè quel vivere bene che dovrebbe aiutare ad affrontare la morte quando si avvicina. Formare le figure che oggi sono più spesso al capezzale dei moribondi: medici e infermieri, familiari e amici, psicologi e sacerdoti, per aiutare a concludere la vita in maniera umana e dignitosa. Individuare valori e responsabilità etiche per reinterpretare il ruolo e i limiti della medicina, per una maggiore attenzione alla dimensione spirituale (anche se non religiosa), per promuovere le cure palliative. Evitando forme di accanimento o di eutanasia, e attivare un reale accompagnamento che permetta di “accettare” la morte. Per il cristiano, la fede è una grande risorsa, che va “tradotta” in mentalità, atteggiamenti, scelte, esprimendosi in quella preghiera del poeta Rilke: «Signore, dà a ciascuno la sua morte, la morte che da quella vita viene». Si intravvede la prospettiva di una riconciliazione con la morte, che san Francesco arriva a chiamare «sorella», e che può essere tale per ogni persona, anche per chi non crede, ma accetta la “scommessa” del senso e del compimento, verso un oltre, nel Mistero. Cancelliere Pontificia Accademia per la Vita © riproduzione riservata
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: