domenica 31 marzo 2019
Se tutti coloro che, nella tenzone del dibattito, si sentono dare del "radical chic" fossero davvero dei radical chic, in Italia lo champagne scorrerebbe a fiumi e le tavole rigurgiterebbero di aragoste e caviale. Gli epiteti sono armi eccellenti nel pugno di chi vuole metter fine a un confronto basato su fatti, dati e argomenti. Da quel momento in poi non si parlerà più di immigrazione, disuguaglianza, educazione, clima o altri temi che richiedono studio, sfumature e approfondimenti, che com'è noto stancano e non attirano né like né voti. Da quel momento in poi il presunto radical chic dovrà dimostrare di non esserlo, sarà costretto in difesa e, come il calcio insegna, chi si ritrova stretto negli ultimi venti metri prima o poi il gol lo becca. Se poi ha la sventatezza di replicare con l'unico contropiede in suo possesso, un banale "fascista!", sarà respinto con perdite da una sonora risata: "I fascisti non esistono più"; e coloro che stanno celebrando i cent'anni dei Fasci di combattimento sono raffinati ricercatori di storia mossi unicamente dal sacro fuoco della cultura.
Bisogna esser chiari: i radical chic esistono. Ne denunciò per primo l'esistenza lo scrittore Tom Wolfe nel 1970. Nel loro attico di New York il pianista e direttore d'orchestra Leonard Bernstein e la moglie, l'attrice cilena Felicia Montealegre, organizzano un party per raccogliere fondi per le Black Panthers. Tra i riccastri di sinistra pare si andasse a champagne e caviale a tutta manetta, sempre che le fonti di Tom Wolfe fossero davvero attendibili, perché il risentimento è come un pescatore: di bocca in bocca, l'Omero che alligna in noi a poco a poco trasforma un cefalo in una cernia e infine in uno squalo. In effetti, è improbabile che quella sera i riccastri andassero a pane, salame e rosso della casa. Fatto sta che Wolfe ne ricavò un fortunato reportage e un libro, e due anni dopo la plastica espressione, assai irridente, venne importata in Italia, o se preferite venne ribollita, da Indro Montanelli per i rivoluzionari da salotto.
Oggi espressioni analoghe esistono in tutte le lingue. I francesi, ad esempio, dicono "gauche caviar". Sul prestigioso Oxford Dictionary la definizione, che ignoriamo se sia stata stilata da un pallido radical chic o da un rude sovranista gallese, suona così: "Ostentazione alla moda di opinioni della sinistra radicale", riferito anche ad "abbigliamento, stile di vita e persone". Recente aggiunta: "radical chic con il rolex", chissà se autentico o patacca acquistata da una ex pantera nera convertita al capitalismo predatorio.
La sensazione è che i radical chic non siano più quelli di una volta. Sono troppi! Basta farsi beccare in metropolitana con un libro preso alla bancarella dell'usato, anziché a smanettare con lo sguardo lobotomizzato sullo smart da mille euro, per sentirsi dare del radical chic. E comunque il termine, che da Bernstein e signora e allegra combriccola di riccastri si è allargato anche al perito meccanico che la sera in tv guarda Focus o Arte, pone alcuni problemi. Ad esempio: è possibile essere radical senza essere chic? O chic senza essere radical? Se nell'intimo mi sento radical chic (senza rolex) e in trattoria avverto un desiderio irresistibile di cotoletta e patatine, devo pormi delle domande? Se allo champagne preferisco un meno presuntuoso prosecchino della leghista Marca Trevigiana, vado in crisi d'identità? Decisamente più agevole essere fascisti nell'anima, senza aggettivi, magari con qualche sospiro di nostalgia. Puoi sempre negare con un sorriso di scherno. E continuare a trangugiare champagne con i camerati, senza un Tom Wolfe tra le scatole.
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