martedì 21 gennaio 2020
Janet, liberiana di origine, aveva soggiornato a Niamey per qualche tempo prima di raggiungere l'Algeria con alcune connazionali. Erano passati almeno cinque anni dalla sua partenza per Algeri. Nel viaggio una sua amica, incinta, aveva perso il figlio nel deserto perché, per dargli un futuro, voleva nascesse in Algeria. Forse, lì, avrebbero avuto pietà di lei e delle altre donne che l'accompagnavano fino alla capitale Algeri. Janet si era trovata un posto in un quartiere alla periferia della città. Cucinava e vendeva bevande ad altri migranti in cerca di fortuna in Algeria. Aveva avuto lei stessa un figlio che – per evitargli problemi, vista la società nella quale erano ospiti – aveva chiamato Mohammed. Era morto prima di raggiungere i due anni di età. In verità, la malattia del bimbo sarebbe stata facilmente guaribile, era stata tutta una questione di tempo. Quando Janet aveva raggiunto la Clinica Moustafa, che offre cure gratuite ai migranti, suo figlio era già tornato in tutta fretta nella città dei bambini, che sorge accanto a ogni deserto che si rispetti.
Le espulsioni di migranti, rifugiati, richiedenti asilo, mendicanti, lavoratori edili clandestini, irregolari e regolari, accomunati dalla povertà e spesso senza documenti apprezzati dalla autorità, erano iniziate ormai da anni. Ben prima delle marce rivoluzionarie che avrebbero occupato le prime pagine dei giornali. Questo venerdì 17 gennaio si è celebrata la manifestazione settimanale numero 48. Nel frattempo l'Algeria ha stipulato accordi di espulsione e rimpatrio con alcuni Paesi limitrofi, tra cui il Niger. Il governo ha confermato, nel 2018, di avere condotto l'espulsione di circa 25mila migranti nel corso degli ultimi cinque anni. L'accusa, nel caso dei nigerini, era quella di esercitare il delitto di mendicare coi bimbi e, per le signore, anche quella di prostituzione. Secondo l'Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (Oim), che registra gli arrivi nel nord del Niger, circa 11mila persone sono state espulse da gennaio a novembre. Naturalmente le autorità hanno negato ogni accusa di mancato rispetto dei diritti umani. Un rapporto circostanziato di Amnesty International smentisce questa versione.
Janet è stata arrestata per strada dalla polizia algerina e, senza neppure poter tornare a casa per mettere insieme i suoi averi, è stata condotta con altre persone, straniere come lei, in un centro per un paio di settimane. Quando il numero di passeggeri ha raggiunto quanto le autorità avevano previsto, con camion e bus i migranti, dopo un lungo viaggio, sono stati abbandonati alla frontiera del Niger, nel "punto zero". Ci sono una ventina di chilometri da percorrere nel deserto prima di raggiungere la città di Assamaca e poi Arlit che, oltre all'uranio, possiede i campi di accoglienza dell'Oim. Janet racconta che era difficile camminare nella sabbia per le donne coi bambini. Janet dice di essere stata colpita alla guancia da un agente di sicurezza dell'Oim, perché accusata di non rispettare la fila per accedere al cibo quotidiano offerto ai migranti. Janet ricorda che lei e gli altri venivano trattati come animali, senza rispetto e senza umanità. Acqua e cibo erano sempre insufficienti. Janet ha 42 anni e si è fatta volontaria per tornare in Liberia, Paese che ha lasciato ormai da molti anni. Il suo compagno è ancora ad Arlit e dice che, se Dio vuole, si incontreranno. Sa che nel suo Paese l'ex calciatore Geoge Weah, unico pallone d'oro africano e diventato presidente della Repubblica, non riesce a raddrizzare la barca dell'economia dopo anni di guerra civile e di fronte a una corruzione endemica. Lunedì ha l'appuntamento con l'impiegato dell'Oim e spera di essere ammessa nella lista dei prossimi partenti.
Ad Algeri Janet aveva un figlio, un ristorante e vendeva bibite e lattine di birra ai migranti di tante nazionalità differenti. Dice che gli affari andavano molto bene ed era contenta del poco che aveva. Ringrazia per la vita.
Niamey, gennaio 2020
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