venerdì 13 gennaio 2017
Una morte recente, quella di Tullio De Mauro, è stata sentita con molta partecipazione da una vasta comunità di colleghi, allievi, lettori e, credo, di insegnanti di vario ordine e grado, sia i più anziani che hanno divorato a suo tempo la sua Storia della lingua italiana dopo l'Unità, che i più giovani, che hanno seguito le sue lezioni o, i meno fortunati, le sue rubriche, le sue polemiche, la sua difesa di un rapporto vivo e forte, come si diceva un tempo, tra cultura e popolo. Molti hanno richiamato per lui il nome di Gramsci e l'hanno indicato come un ultimo «intellettuale organico». In un periodo di crisi della sinistra; in un periodo di mutazioni economiche e antropologiche; in un periodo in cui la pedagogia è boccheggiante, De Mauro ha assolto anche a una funzione di pedagogista, pur essendo il suo mestiere quello del linguista. Non c'erano più in giro, a cui ispirarsi, movimenti forti come l'Mce, studiosi legati alle esperienze più avanzate e alle "buone pratiche" come Codignola, Borghi, Capitini, Volpicelli, Laporta, De Bartolomeis, la Bertoni Jovine, la Gobetti, la Zoebeli e tanti altri (la generazione diventata adulta tra fascismo e dopoguerra) e preti rigorosi come don Milani (su cui De Mauro ha scritto pagine di assoluta ammirazione e solidarietà) o don Facibene, o come don Mazzolari. E la pedagogia, da scienza centrale per i compiti che le venivano attribuiti di costruire cittadini nuovi per una società nuova, diventava scialo di tecnologie senza un'etica, a servizio del potere e delle sue regole invece che dedita alla costruzione di nuovi modelli umani e sociali. Oggi è una scienza morta, inerte o servile, e aspetta chi osi darle nuovi compiti. Ma, nel frattempo, è stato a personaggi come De Mauro (peraltro ben pochi) che gli insegnanti più esigenti hanno dovuto attaccarsi per trovarvi ragionamento e sostanza sui problemi di un'epoca nuova e preoccupante. De Mauro lo ha fatto con una convinzione per me discutibile, quella di una «lunga marcia attraverso le istituzioni» nel momento in cui diventava difficile fidarsi delle istituzioni, a cominciare dalla politica e dalla scuola, in mano a burocrazie ciniche e verbose. Bisognerebbe dunque spingersi oggi oltre De Mauro e il suo ostinato tentativo di cambiare qualcosa dall'alto e non solo dal basso (penso per esempio, ai suoi discorsi sui «nuovi cittadini» gli immigrati, o alla sua critica dei nuovi analfabetismi stimolati dai media), bisognerebbe spingersi di nuovo sul terreno delicato e accidentato dell'utopia. Si tratta di ripensare alla scuola in funzione di una società in cui le forme del dominio si sono fatte subdole ed estremamente presenti. Si ha bisogno di una nuova utopia educativa, di profeti e precursori come lo furono i Rousseau e i Pestalozzi, i Tolstoj e le Montessori, e sì, i Gramsci e i don Bosco…
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