sabato 27 maggio 2017
Affidare a una fotografia il compito di raccontare il clima di un incontro è uno di quei giochetti, facili, ai quali siamo ormai abituati da tempo. Il Papa, con Trump, ha sorriso o aveva la faccia scura? E perché? No, guarda, qui sorride. Sull'incontro tra Francesco e il nuovo presidente degli Stati Uniti, di questo gioco, si è perfino abusato. E meno male che era stato lo stesso Francesco, alla vigilia, a spiegare che lui con le persone ci vuole prima parlare, «perché non si fa mai un giudizio sulla persona senza ascoltarla». Detto questo, è chiaro che le attese per questo incontro erano altissime. Del resto, era inevitabile: da una parte c'era una personalità che ormai è universalmente considerata la massima autorità morale del pianeta e, dall'altra, il capo della più grande potenza economica e militare. È così da quarant'anni almeno. E non è mai stato un rapporto semplice, anzi. Ronald Reagan, tanto per dire, che in un momento storico tra i più delicati del secondo dopoguerra tanto aveva considerato l'importanza del Vaticano da spingere per far cadere il tabù delle relazioni diplomatiche tra Washington e Oltretevere, non prese benissimo – è un eufemismo – la decisione di Giovanni Paolo II di convocare nel 1986 il primo incontro di Assisi, sentendosi in qualche modo, neanche troppo implicito, chiamato in causa, e non in senso positivo. Il suo successore George Bush, insieme a tutto l'establishment statunitense, nel 1991 patì come un diretto alla mascella la pubblicazione della Centesimus Annus, con la quale papa Wojtyla diceva in sostanza che la sconfitta del comunismo non significava che il capitalismo fosse, di per sé, cosa buona e giusta.
Ancor meno soddisfatto, forse, fu Bill Clinton nel 1994 quando Giovani Paolo II gli mandò quasi a monte la conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo, per la quale l'amministrazione americana aveva servito all'agenzia dell'Onu organizzatrice un documento preparatorio preconfezionato fatto di draconiani interventi di contenimento delle nascite, compresi piani di sterilizzazione di massa già pianificati per centinaia di milioni di individui nel Secondo e Terzo mondo. Un tentativo, secondo il Papa, di «colonizzazione demografica», figlia di quel nuovo ordine mondiale stabilitosi dopo il crollo del Muro e la fine dell'Unione Sovietica e che, a Wojtyla, non piaceva per nulla: «Una volta – disse nel 1998 sull'aereo che lo stava portando a Cuba – c'erano due superpotenze, oggi ce n'è una sola. Non so se sia un bene».
Nonostante le ricorrenti crisi, e qui ne abbiamo ricordata solo qualcuna, le relazioni sono andati avanti, e con successo, proprio nella consapevolezza che Santa Sede e Stati Uniti «devono», per forza, dialogare. Un dialogo che nemmeno lo schiaffo a Giovanni Paolo II dato da George Bush, il quale neppure lesse la lettera inviatagli nel marzo del 2003 per scongiurare l'attacco all'Iraq, è riuscito a interrompere. Tanto che alla fine proprio Bush junior è arrivato a detenere il record degli incontri – sei – con un Pontefice. Più tranquilli, invece, gli anni di Obama, al quale Benedetto XVI volle tuttavia regalare anche una copia dell'istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede Dignitas personae, sulla bioetica, chiedendo un più forte impegno per la difesa della vita, a cominciare dalla riduzione degli aborti.
Oggi questa storia lunga di relazioni si rinnova con Donald Trump. Presto per dire cosa succederà, e come si evolverà, se ci saranno o meno nuove crisi o, al contrario, più alti che bassi. Francesco gli ha regalato una copia della Laudato si', e molti hanno messo in relazione questo gesto solo con lo scetticismo del presidente rispetto alle politiche per fronteggiare le mutazioni climatiche. Peccato che la Laudato si' non sia semplicemente il manuale del bravo ecologista cristiano, ma una profonda, sofferta, a tratti drammatica riflessione-proposta sul potere e sulle sue responsabilità. Molto più importante. Anche, e soprattutto, per un presidente degli Stati Uniti.
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