venerdì 21 maggio 2010
Ieri su due pagine di "Repubblica" «discussione teologica sul rapporto tra male, confessione e concetto di reato». Tre contributi: Mancuso, Ceccarelli e Aspesi. Il primo inizia secco: «Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato"», ricorda che si dice «per mia colpa», poi si interroga e si risponde concludendo che c'è una «tensione dialettica» sul tema, che la confusione tra peccato e reato è pericolosa e che chi ha espresso al meglio questa tensione è stato Dostoevskij in "Delitto e castigo". Più leggero Ceccarelli sui peccati dei politici, ma solo Dc, e allegra la Aspesi che descrive a modo suo il rapporto tra donna e peccato. Che dire? Su Mancuso, che forse liquidare così 2000 anni di storia cristiana è superficiale, e poi che nel suo ampio discorso, tra Kant, Kierkegaard, Lutero, Nietzsche e Bonhoeffer, non si percepisce una differenza fondamentale, quella tra senso cristiano del peccato, che suppone quello della salvezza, della misericordia, della gratuità del perdono di Dio, e che quindi suscita speranza e gioia di nuovo inizio, e sensi di colpa, che prescindono dalla presenza salvatrice di Cristo e schiacciano l'uomo in un «rimorso» senza futuro, bloccandolo nel disprezzo di sé e degli altri. Perciò oggi, mancando spesso il senso del peccato, abbondano i sensi di colpa, e tanta gente non confessa più i suoi peccati nel confessionale, ma anche e proprio per questo va a confidarli a psicologi, psichiatri, maghi e fattucchiere. Insomma: leggi le due pagine e ringrazi la fede e il senso luminoso della speranza che non delude, perché Dio in Cristo si rivela più grande di ogni nostro peccato"
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