giovedì 26 maggio 2016
Questa non è esattamente una considerazione riguardante la topografia teologica, quantunque anch'essa possa costituire, com'è risaputo, un affascinante motivo culturale. A me interessa oggi un altro aspetto: l'imbarazzante constatazione, sperimentata da noi tutti, di come, nella pratica, le polarità rappresentate dal cielo e dall'inferno non siano, in fondo, così contrapposte come ci si potrebbe aspettare. E ci causa qualche sconcerto lo scoprire, nel corso della vita, che esse sono invece terribilmente simili. L'aspetto sotto cui ci appare la possibilità di bene o quella di male non differisce poi così tanto. Ciò che le separa, come già spiegava l'illustre rabbino Soloviel, è non di rado l'impercettibile suono di una goccia di pioggia che cade nel mare. Solo questo. Al punto che coloro che si trascinano per gli inferi non possono argomentare di non aver conosciuto il cielo, e quelli che si avventurano per i cieli non possono pensare di non avere mai affrontato la possibilità inversa. In sintesi, l'etica dell'esistenza forse non comporta che noi facciamo cose differenti, ma che realizziamo le medesime cose in modi differenti.Due esempi, culturalmente distanti ma abbastanza incisivi per darci di che riflettere. Il primo è una storia zen. Un bel giorno, un discepolo interrogò il suo Maestro: «Maestro, qual è la differenza tra il cielo e l'inferno?». E il Maestro gli spiegò: «La differenza è molto piccola, eppure è gravida di enormi conseguenze. Immagina una grande quantità di riso già cucinato. Immagina anche che attorno a esso ci siano, paradossalmente, molte persone sul punto di morir di fame. Il problema è che hanno forchette con lunghi manici, di due o tre metri. Possono raccogliere il riso, ma non riescono a portarselo alla bocca perché le forchette sono troppo lunghe per essere maneggiate. Così, degli affamati solitari si dibattono con l'irrisolvibile dramma della fame di fronte a tanta, inesauribile abbondanza. L'inferno è questo. “E il cielo quale sarebbe?”, tagliò corto il discepolo. “Immagina adesso - riprese il Maestro - un'altra grande quantità di riso sulla tavola. Tutt'intorno, persone affamate ma, in questo caso, piene di vitalità. Neppure loro riescono ad avvicinare il cibo alla propria bocca. Le forchette, lunghe due-tre metri, raccolgono il riso ma sono troppo lunghe per essere maneggiate. Però, invece di insistere a portarselo alla bocca, qui gli uni danno da mangiare agli altri, in una sorta di grande cerchio fraterno”». Nelson Mandela si riferiva di frequente alla sapienza “ubuntiana”. Ubuntu significa, nella sua cultura africana, «io sono perché noi siamo». È una pratica etica focalizzata sulle reciproche relazioni tra le persone. Indica “benevolenza verso il prossimo” e rappresenta una regola di vita basata sulla compassione. Esistono anche delle storie per descrivere l'ubuntu. Come questa: un antropologo propose un gioco ai bambini di una tribù africana. Mise un cesto di frutta appetitosa sotto un albero e disse loro che chi fosse arrivato primo l'avrebbe avuta tutta per sé. Quando venne dato il segnale di partenza, i bambini si presero tutti per mano e in quel modo si misero a correre. Giunti al traguardo, afferrarono il cesto, vi si sedettero attorno e gustarono assieme il sapore del premio.Mandela descriveva l'ubuntu con questa testimonianza: «Una persona che viaggia attraverso il nostro Paese e si ferma in un villaggio non ha bisogno di chiedere cibo o acqua: subito la gente le offre del cibo, la intrattiene. Ubuntu non significa non pensare a sé stessi; significa piuttosto porsi la domanda: voglio aiutare la comunità che mi sta intorno a migliorare?». Anche il cielo e l'inferno passano di qui.
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