mercoledì 9 novembre 2011
Il curriculum di Tzvetan Todorov intimidisce come la pronuncia del suo nome (il cognome è più facile), ma lo sentiamo un po' di casa perché l'anno scorso ha vinto la prima edizione del “Premio Giuseppe Bonura” per la critica militante, promosso da questo giornale. Nato in Bulgaria nel 1939 ma francese dal 1963, a parte i viaggi transatlantici per insegnare in prestigiose università americane, discepolo di Roland Barthes, autore di studi imprescindibili sui formalisti russi, attualmente dirige il Centro nazionale della ricerca scientifica di Parigi, e scusate se è poco.
Donzelli editore, che di Todorov ha già pubblicato L'uomo spaesato (1997) e uno studio su Benjamin Constant (2003), offre ora per 15 euro un saggio di 112 pagine intitolato L'arte o la vita! (con un punto esclamativo che si poteva economizzare), in cui Todorov analizza “Il caso Rembrandt”.
Il “caso” nasce dalla diversità tematica e psicologica fra le grandi opere pittoriche di Rembrandt come La ronda di notte, La lezione di anatomia, Il festino di Baltassar, e l'attività di disegnatore e di incisore. I capolavori acclamati e i grandi ritratti sono solenni, sontuosi, dettati dalla storia e dal mito; i disegni e le incisioni riguardano invece la quotidianità, la gente comune, e anche quando il soggetto è sacro, Gesù, la Madonna, i santi, si confondono con i popolani, sono popolo anch'essi. Da qui Todorov inferisce che «Rembrandt è il grande pittore del protestantesimo», dato che la “devozione moderna” dei protestanti «chiedeva ai fedeli di annullare la distanza temporale che li separava dal passato e di pensare al Cristo e alla Vergine come a individui che avrebbero potuto incontrare». Sarà, ma sommessamente viene da ricordare che prima di Rembrandt (1606-1669) in campo cattolico c'era stato un certo Michelangelo da Caravaggio (1571-1610) con le sue Madonne popolane che all'epoca scandalizzarono qualcuno ma che tuttora si venerano nelle chiese (anche i cattolici si sentono contemporanei di Cristo), mentre Rembrandt tenne separato il sacro e il profano, relegando la quotidianità alla produzione “minore” (se questo aggettivo si può usare per un genio come l'artista olandese) dei disegni e delle incisioni.
Più convincente appare la riflessione di Todorov quando nota che Rembrandt anche quando disegna donne, bambini, mendicanti, attingendo al realismo di soggetti esistenti, «cerca di catturare la verità non degli esseri, ma dei gesti e delle situazioni». Lo si nota nei disegni che ritraggono la sfortunata Saskia, moglie del pittore, che morì nel 1642 poco dopo aver dato alla luce Titus, l'unico figlio che diverrà adulto, dopo che erano morti in tenera età un altro figlio e due figliolette: anche quando è ritratta in punto di morte, non è Saskia fermata sul disegno, è la malattia in generale, è la soglia della morte che riguarda ciascuno di noi.
Ed è altrettanto vero nell'impressionante serie degli autoritratti di Rembrandt (ne sono stati contati più di 75), che eternizzano non il pittore Rembrandt ma, piuttosto, il decorso del tempo sul volto di un uomo, di ogni uomo. L'aura atemporale della pittura di Rembrandt, che sempre «ritrae un tipo, più che un individuo», ha un prezzo esistenziale assai alto, perché nasce da un'osservazione asettica, distaccata, della realtà, anche quando riguarda le persone più care: «Dopo la morte della moglie, il pittore non ha voluto conservare un frammento del mondo reale o un ricordo fedele del suo aspetto, ma una trasfigurazione della persona in personaggio mitico. Di Saskia, Rembrandt ha serbato la pittura che lei gli ha permesso di realizzare». Da qui la disgiuntiva tra l'arte o la vita indicata nel titolo del saggio: come se il pittore «fosse pronto a servirsi di parenti e amici per perseguire un unico obiettivo: perfezionare la sua pittura», quasi che «solo il sacrificio della vita possa assicurare l'immortalità».
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