Suor Aziza guarisce le donne in fuga
giovedì 21 gennaio 2021

Il sorriso di Azezet è di quelli che illuminano anche gli occhi. Si schermisce perché non porta il velo, e durante la conversazione in video da Israele scuote spesso i suoi corti ricci sale e pepe. Racconta delle "sue" donne sradicate, molte delle quali eritree come lei, che lottano per la sopravvivenza e per conquistare un pezzo di carta chiamato "asilo".

Che si guadagnano da vivere producendo all'uncinetto o con la macchina per cucire meravigliosi cestini e portachiavi e braccialetti artistici e bambole e mascherine antivirus, perché senza documenti altri lavori non possono svolgere. In certi momenti suor Azezet Habtezghi Kidane (o semplicemente Aziza, con una parola che nella sua lingua vuol dire "cara") perde il suo sorriso. Accade quando ricorda lo stato in cui le ragazze a partire dal 2007 sono arrivate in Israele dopo il viaggio attraverso l'Africa: seviziate, incinte dei loro aguzzini, con ferite vive in tutto il corpo e con traumi psicologici che ancora oggi, dopo oltre un decennio, reclamano il conto.

Aziza è una suora comboniana nata in Eritrea 62 anni fa. Anche cittadina inglese, infermiera e ostetrica, vive tra la West Bank, dove segue le comunità beduine, e Tel Aviv, dove lavora per dare un futuro a centinaia di donne africane arrivate in Israele attraverso il Sinai. Per questo ha creato l'associazione Kuchinate, che commercializza gli oggetti artigianali e artistici realizzati dalle stesse rifugiate.

Suor Azezet e Diddy, con la quale ha fondato l'associazione Kuchinate

Suor Azezet e Diddy, con la quale ha fondato l'associazione Kuchinate - .

«Era il 2010, a Tel Aviv facevo l'infermiera volontaria nella clinica della ong Physicians for Human Rights. In quanto donna, i medici mi chiesero di parlare con le giovani che arrivavano dal Sinai. Erano traumatizzate, piene di ferite e cicatrici. Volevamo capire cosa avevano vissuto nel tragitto. Non immaginavamo quello che ci avrebbero raccontato, piangendo e singhiozzando».

Banditi che legavano e frustavano, torturavano, violentavano, strappavano occhi, tagliavano piedi e mani. Racconti che oggi conosciamo bene anche dai flussi con la Libia, ma dieci anni fa il report che scaturì dalle interviste di suor Aziza fu uno choc per il mondo. Israele reagì chiudendo le frontiere con l'Egitto e creando una "terra di nessuno".

Aziza nel 2012 fu premiata come "Eroe del nostro tempo contro le moderne schiavitù" negli Stati Uniti, ma il suo lavoro non è affatto finito. Le rifugiate africane hanno cercato di superare le sevizie e la disumanità dei loro simili, ma bisognava offrir loro una speranza. E così è nata l'associazione Kuchinate, che nella lingua tigrina significa crochet: le donne imparano a lavorare a macchina e all'uncinetto, con stoffe variopinte e lane multicolori producono oggetti coloratissimi e artistici che vengono poi venduti nei mercati e con il commercio elettronico in tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti e in Italia.

«Abbiamo 350 rifugiate richiedenti asilo che lavorano con noi, in questo periodo di pandemia anche da casa – racconta Aziza –. A ciascuna diamo un piccolo salario e voucher per mangiare. Diverse di loro sono madri sole, con bambini che ora, cresciuti, chiedono chi è il padre. Ci sono donne che, arrivate incinte dal viaggio attraverso il deserto, hanno dato in adozione il figlio qui in Israele, e adesso ne hanno nostalgia e vorrebbero sapere qual è stato il loro destino, con chi sono cresciuti». Anche le responsabili di Kuchinate sono emigrate africane: oggi sono adulte libere, formano le nuove ragazze, le ascoltano, le accompagnano, credono in loro e le convincono ad avere ancora fiducia negli altri. Senza Kuchinate, molte di loro non sarebbero sopravvissute, altre si troverebbero sulla strada. E a suor Aziza, nel dirlo, sorridono anche gli occhi.

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