mercoledì 15 giugno 2011
Da giovane studiai per ostentazione. Poi, un poco, per istruirmi. Ora per divertirmi. Mai, però, per guadagno.

Possiamo osare di contraddire il grande Montaigne, l'illustre pensatore e moralista francese del Cinquecento? Sì, e lo facciamo ricorrendo a un altro nume della cultura mondiale, Aristotele, al quale Diogene Laerzio (III secolo a. C.), nelle sue Vite dei filosofi, mette in bocca questa affermazione: «Lo studio è la migliore previdenza per la vecchiaia». Certo, lo studio autentico - un po' diverso da quello "comandato" dalla "scuola d'obbligo" a cui ancora una volta sono stati sottoposti fino a questi giorni i nostri ragazzi - fiorisce da passione e spesso diventa una sorta di divertimento, anzi una festa (questa è un po' anche una confessione personale, penso condivisa da molti che ora mi leggono). Si aprono orizzonti, ci si scrosta di dosso l'ignoranza, si fa godere lo spirito nella bellezza, il cuore freme nella ricerca, la mente si esalta nella scoperta della verità.
È probabile, tuttavia, che sia in agguato anche un po' di ostentazione, come suggerisce Montaigne; ma, tutto sommato, è meglio mostrare questo aspetto di "saccenza" che offrire in modo arrogante stupidità e volgarità, banalità e vanità. C'è, però, come dicevamo, un punto rilevante in cui ci distanziamo da Montaigne. Certo, non dev'essere l'unico scopo dello studio, ma non è negativa una preparazione che costituisca una dotazione di competenza e di conoscenza da utilizzare nel lavoro e nella professione. Spesso ci si lamenta a ragione che la scuola non prepari e attrezzi il ragazzo per la vita. Un altro sapiente antico come Seneca aveva, infatti, coniato un detto amaro: Non vitae sed scholae discimus, «impariamo per la scuola, non per la vita».
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