giovedì 26 ottobre 2023
L’altra mattina in auto costeggiavo il Parco Sempione, pensando a cose mie, quando ho percepito qualcosa dall’esterno che mi preoccupava. C’era traffico, un Tir e un autobus davanti a me, ero di fretta, assorta in una mia preoccupazione. Tuttavia qualcosa che avevo intravisto, passando, mi aveva turbato. Cosa? Ora ero intenta a cercare un parcheggio, impresa ardua a Milano, dovevo concentrarmi. Ma, cosa avevo visto? Poi ho capito. Gli alberi. Gli alberi del Parco, e i platani orientali di corso Sempione. È la fine di ottobre, e sono carichi di foglie ancora verdi. Di un verde spento, finito, però restano sui rami. In una mattina di sole si potrebbe quasi pensare di essere in estate.
In questi giorni verso i Morti, da che io ricordo, a Milano i rami andavano rapinosamente spogliandosi sotto la pioggia, e il vento. Nei giorni già freddi, anzi, ne sono certa, mentre andavo a scuola le foglie brune e rosse, raggrinzite, a terra, spinte dalle raffiche si levavano in mulinelli, danzavano quasi un’ultima folle danza prima di ricadere e poi, sotto alla pioggia, iniziare a marcire. Quei mulinelli di foglie riarse quando ero bambina mi rallegravano, mi piaceva esserne sfiorata, era un gioco – giacché a dodici anni la morte sembra non riguardarti, e sei certo, inconsapevolmente, che tu resterai giovane, giovane per sempre.
In questi ultimi anni i vortici delle foglie cadute non mi rallegravano più. Ne vedevo la malinconica bellezza, ma troppo cominciavano a somigliarmi, quelle foglie. Quest’anno, però, no. Fino a pochi giorni fa faceva ancora caldo. E gli alberi di Milano non hanno capito che è autunno. Vedo in giro oleandri sgargianti, e anche la grande vite americana sulla parete del cortile di casa ha messo di nuovo le inflorescenze, come fosse aprile. Ho un po’ di pena per queste piante ingannate, che incontreranno il gelo senza esserne preparate. Per queste piante confuse da un’estate che stenta a finire. Dicono sia tutta colpa degli uomini. Però, mi dico, al tempo delle glaciazioni che sterminarono i dinosauri noi non c’eravamo. In ogni caso, non avrei immaginato di assistere nella mia vita a una tale mutazione. Sapevo a memoria quale azzurro ha il cielo a marzo, a Milano, quando soffia un vento freddo, ma la primavera preme, e come cala la nebbia sulla pianura padana a novembre, e spegne, e trasfigura ogni cosa. Amavo la fedeltà dei peschi che verso il giorno di San Giuseppe in una notte nei viali fioriscono tutti insieme: un golpe rosa, esuberante nel grigiore metropolitano. Tutto mi era abituale e caro. Io pensavo fosse per sempre. La tempesta che alla fine di questo luglio ha investito Milano, invece, non l’avevo mai vista: scuoteva i vetri delle finestre minaccioso quel vento, ululava nelle trombe delle scale. Nel cielo la luce livida dei lampi, dalla strada lo schianto dei fulmini. E come si piegavano i noci selvatici davanti a casa, fino a spezzarsi. E, al mattino, che strage di alberi. Non una tempesta: un uragano. Mai visto niente di simile, a Milano. Dunque ciò che mi inquieta in questo autunno è un cambiamento nella fedeltà delle stagioni, quali erano sempre state. Come se qualcuno che conosci da una vita improvvisamente avesse un’altra voce, un altro sguardo. E come se questa metamorfosi in realtà fosse solo un segno di altro, di qualcosa d’altro che accade, fra cielo e terra. In tre anni un’epidemia mondiale, una guerra in Occidente, e ora un’altra, perfino più crudele. Sul Mediterraneo. Guerre così vicine. La pace che conosciamo da quasi 80 anni davvero è garantita, davvero è per sempre? Anche la natura attorno sembra avvertirci che un’era volge al termine. Ancora non cadono, le foglie dei platani di corso Sempione. E come faranno a rinascere a marzo, se non vogliono morire? © riproduzione riservata
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