venerdì 5 ottobre 2007
Vivo in quella solitudine che è penosa in gioventù, ma deliziosa negli anni della maturità.
Così confessava lo scienziato Albert Einstein durante un'intervista concessa negli ultimi anni della sua vita. Devo riconoscere che condivido in profondità queste parole: costretto ad essere "esposto" per buona parte delle mie giornate, quando ho un tempo esclusivamente mio, solitario, silenzioso nel mio appartamento, mi pare di celebrare una festa. Eppure so anche che, per me come per tutti, ci sono stati momenti in cui l'isolamento era un peso, una sorta di maledizione. Quante persone - forse vecchi, malati, abbandonati, stranieri - stanno giorni interi davanti al telefono, aspettando che suoni e, invece, esso resta inesorabilmente muto perché non c'è più nessuno che pensa a loro.
Ecco, allora, i due volti della solitudine: pace e tormento, serenità e gelo, dieta dell'anima ma anche «campo da gioco di Satana», come scriveva il romanziere Vladimir Nabokov. Già l'antico Seneca riconosceva che «la solitudine è per lo spirito quello che è il cibo per il corpo»; eppure non aveva neppure torto Victor Hugo quando affermava che «la solitudine crea persone d'ingegno o idioti o disperati». Dobbiamo, perciò, riuscire a distillare il bene che fluisce dall'essere soli: riflessione, pacatezza, quiete, contemplazione. Ma dobbiamo anche vaccinarci contro l'isolamento che richiude in noi stessi, in un buio interiore desolato. La società in cui viviamo, da un lato, è massa amorfa e fusa insieme; d'altro lato, è una folla di solitudini amare. La vera pace è in un equilibrio delicato tra comunione e identità.
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