martedì 27 marzo 2007
Èuna piacevole sorpresa scoprire alla fine che, quando siamo soli, non siamo poi così soli. Un lettore di Ischia su un cartoncino mi invia queste parole, senza commento, apponendo solo - oltre al suo nome e al saluto - l'indicazione dell'autore, Charles Burney (1726-1814), storico inglese, del quale io non so nulla. Il pensiero, però, mi sembra attraente perché tocca un tema poco praticato ai nostri giorni. Forse dovremmo subito distinguere tra isolamento e solitudine: il primo è una maledizione, la seconda una necessità benedetta. Immagino a quest'ora, nella metropoli in cui abito, le tante persone isolate, senza uno squillo di telefono o una visita, dimenticate da tutti. Certo, esse possono anche godere di qualche momento di pace nella solitudine, ma il loro isolamento, perché malate o senza parenti e amici o perché straniere, è un incubo senza fine. Un'anziana signora che conosco, caduta per terra di sera, poco dopo l'uscita di casa della badante che l'accudisce, è rimasta così abbandonata e ferita fino alle dieci del giorno dopo, al ritorno della sua colf. Eppure, c'è l'altro aspetto da considerare, quello della solitudine, che purtroppo è spesso evitato soprattutto dai giovani che subito cercano compagnia, pur di non stare mai soli con se stessi. E, invece, si tratta di un'esperienza stupenda, quando è vissuta con sapienza. In quei momenti si scopre di non essere soli, si sente pulsare il mondo, si scende nelle profondità dell'Io, si intuisce la presenza segreta ma non muta di Dio. Pascal diceva che le nostre disgrazie vengono dal non essere capaci di stare soli un'ora al giorno. Basterebbero anche solo cinque minuti perché si riveli a noi un nuovo modo di vivere.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: