domenica 27 agosto 2023
Considero l’esperienza del tradurre un viaggio, in cui il poeta si avventura, in una situazione contraddittoria: da un lato il percorso che segue - immaginiamolo come uno speleologo - è oscuro, sconosciuto, a causa del buio, dall’altro è guidato, essendo stato già tracciato dal poeta precedente, dal modello. E il poeta che traduce, pur ammirando tutti i maestri, sceglie quelli della sua stessa costellazione. Il poeta traduttore vuole compiere un’esperienza, un viaggio iniziato in un’opera in cui ha visto qualcosa di profondo e necessario per la sua esperienza, per la sua anima. Compiere quel viaggio, entrare in quel racconto, ripercorrere dall’interno quell’esperienza. La traduzione è l’ingresso nelle viscere della poesia. Per tradurla, trasmetterla innanzitutto a sé stesso, che, come uno speleologo, sta scavando, e alla comunità, alla polis: alla sua tribù. Il lavoro di filologi e esegeti, principalmente accademici, è utilissimo a ogni poeta che traduce non soltanto per tradurre quell’opera, cosa necessaria, ma per fare poesia nuova da poesia esistente: tradurre l’anima, che è soffio e lingua. Compi un viaggio dagli esiti ignoti, che è già stato fatto da un altro, con esiti luminosi. E che ti ha tracciato il percorso, ma lasciandoti nel buio. © riproduzione riservata
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