mercoledì 25 gennaio 2006
La carità non comincia da casa propria, ma dal primo punto in cui si manifesti l'infelicità. La carità non consiste nel consegnare alla polizia il dolore e la solitudine. La carità è fatta di smeriglio da una parte e d'ovatta dall'altra. Qualche giorno fa abbiamo proposto una citazione desunta dal romanzo A ogni uomo un soldo (Jaca Book) dello scrittore scozzese cattolico Bruce Marshall (1899-1979). Il candido ed evangelico padre Gaston, protagonista del libro, è una continua testimonianza di carità, una virtù tanto predicata e poco praticata. Propongo oggi queste sue parole perché mi sembra che evitino il rischio della retorica che affiora quando si parla di amore cristiano. Tre sono le considerazioni che ci vengono suggerite. La prima riguarda il luogo dove deve abitare la carità: l'infelicità. È facile voler bene al prossimo standosene comodamente sistemati nel proprio appartamento ben arredato e riscaldato, con la quiete soddisfatta di una buona famiglia e forse anche di buone letture, e di cibi semplici ma curati. La carità ci fa, invece, andare per strada per incontrare persone segnate dal dolore o dal male. E qui subentra subito la seconda annotazione. Forte è l'alibi di consegnare alla polizia o agli assistenti sociali il compito di risollevare gli sventurati e di controllare i disperati della terra. La carità, invece, ci costringe a sporcarci le mani in prima persona, a impolverarci i vestiti e a scuotere la nostra serenità. Ma - ed è la terza considerazione - la vera carità non è tanto elemosina o sentimento, non è vaga filantropia e generico «buonismo». Essa è «smeriglio da una parte e ovatta dall'altra». Esige fermezza e delicatezza, impone la correzione fraterna quando è necessario, lo stimolo a reagire e a lottare in chi è caduto o è nella prova, ma anche la dolcezza della vicinanza affettuosa e dell'abbraccio.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: