mercoledì 24 giugno 2020
Jorge Luis Borges (1899–1986) è poeta e narratore argentino, non c’è dubbio e l’anagrafe lo cerziora. È lui a cantare il fervore di Buenos Aires, l’epopea dei gauchos, l’erotismo funebre del tango, ma chi ha letto Borges sa che lo scrittore è profondamente europeo, per gusti e per cultura: Borges è un gentiluomo inglese nato e vissuto a Buenos Aires, ma con la nostalgia per l’Inghilterra, sua patria interiore, al punto di trascorrere i suoi ultimi anni in Europa, addirittura a Ginevra. E a chi gli chiedeva il perché di tale predilezione, rispondeva: «Perché la Svizzera è un Paese in cui non si conosce il nome del presidente». Borges, dunque, sembrerebbe, ed è, il meno adatto a spiegare il buddismo, eppure, nel 1976, pubblicò Qué es el budismo, che Piano B edizioni offre nella traduzione di Federico Delemas (Cos’è il buddismo, pp. 118, euro 12). Il libro assembla alcune conferenze, a cura di Alicia Jurado, la quale si schermisce perché «con la sua abituale generosità, Jorge Luis Borges ha voluto che il mio nome comparisse sulla copertina di questo libro» (non nell’edizione italiana) e precisa di essersi soltanto «occupata di selezionare il materiale in testi più recenti, di apportare alcuni dati e suggerire alcune modifiche, e naturalmente di leggere, scrivere e predisporre il manoscritto per la stampa». Borges è così poco buddista e orientaleggiante da aggrapparsi, appena intravede una pur minima assonanza, a citazioni di autori occidentali, siano Schopenhauer o Zenone di Elea, Sant’Agostino e perfino Victor Hugo, per dirne alcuni. Con qualche sottovalutazione, per esempio quando scrive che «il karma è forse uno dei punti più deboli del buddismo», mentre invece ne è struttura portante. Il karma è formato dalle conseguenze, positive o negative, delle azioni nostre e dei nostri predecessori: come abbiamo un’ereditarietà biologica, così abbiamo un’ereditarietà culturale che viene dai luoghi dove i nostri antenati hanno vissuto, dalle architetture che hanno costruito o frequentato, dai quadri che hanno visto e dalla musiche che hanno ascoltato, dai gusti che ci hanno inconsapevolmente trasmesso insieme al loro sistema valoriale e, innanzitutto, attraverso la lingua che essi hanno parlato prima di noi. Insomma, il karma è molto importante, non solo per i buddisti. Dal libro di Borges non impariamo molto sul buddismo, perché l’autore spesso si nasconde dietro il paradosso o i luoghi comuni. Per esempio, Borges crede di spiegare la dottrina del «Grande Veicolo» (Mahayana), dicendo che essa «usa e abusa della logica per la demolizione della stessa logica», ma non andiamo più in là del gioco di parole. E, fra i luoghi comuni, non esita a citare la logora parabola di Chung–Tzu dell’uomo che aveva sognato di essere una farfalla e, al risveglio, non sapeva se fosse un uomo che aveva sognato di essere una farfalla, o una farfalla che ora sognava di essere un uomo». Dunque, non sappiamo molto di più sul buddismo, ma sappiamo qualcosa di più su Borges, sulla sua onnivora curiosità che accresce il nostro piacere di leggerlo.
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